lunedì 14 settembre 2015

Fare l'amore con la precarietà

Quando capisci che la ragazza con cui stai uscendo è diventata la tua fidanzata? Quando smetti di masturbarti pensando a lei! 

Il sapere popolare mi ha sempre affascinato, in particolare quando si cristallizza in forme come questa: rudi e oneste. Analizzare queste forme è, tra l'altro, un buon modo per rendersi conto delle miserie che nascono dai paradossi intrinseci alla condizione umana. Un buon punto di accesso per analizzare la questione del lieto fine.Qualche giorno fa correvo sulla bici per la città, quando tutto a un tratto mi sono dovuto fermare. Su una pensilina del bus un manifesto pubblicitario di un film recitava: tutti meritiamo un lieto fine.
Ti senti identificato? Pensi che almeno tu lo meriti veramente? Insomma, dopo tante burrasche, non ti piacerebbe attraccare in un porto sicuro e confortevole, al riparo da uragani e piogge torrenziali? A me piacerebbe, e molte volte ne ho sentito il bisogno. Quando ho visto quel manifesto, questi sono stati i pensieri che hanno inconsciamente fatto irruzione nella mia testa.


Poi, qualche millesimo di secondo più tardi, il primo cortocircuito: il messaggio veniva da una pubblicità, progettata proprio al fine di ricercare l'identificazione rapida attraverso il recupero di un pensiero diffuso1.
Viviamo di storie, e perciò ho sempre considerato molto utile lo schema narrativo canonico proposto da Greimas. Ogni testo secondo il semiologo lituano termina con una sanzione conclusiva, un premio, un riconoscimento, per dirne una, la mano della principessa. Il lieto fine come punto finale di una battaglia, come e vissero felici e contenti, come sanzione ultima e risolutoria viene quindi interpretato se passato al tornasole dello schema.
Il problema è che l'unica sanzione terminale possibile delle nostre vite, anche se storificate, rimane la morte; mentre nelle storie, nelle relazioni sentimentali ci sembra corrispondereall'esaurirsi della complicità, l'assopimento della passione, l’appagamento: smettere di masturbarsi pensando a lui.

Da quando abbiamo smesso di credere a una narrazione dominante - la giudaico-cristiana – passiamo le nostre giornate in un continuo negoziare, praticando e ridefinendo allo stesso tempo rituali civili, commerciali e intimi. E ciò non ci crea grossi problemi.
Eppure, in fondo, non siamo disposti a disfarci di questa sicurezza. Anzi, più alte e forti sono le onde che si infrangono sulle nostre esistenze, più forte cresce il desiderio di lieto fine. Quasi banale sembra citare la precarietà, principale fattore di ansia oggigiorno.
Ne La scimmia nuda Desmond Morris descriveva la nostra tendenza sociobiologica duplice e contraddittoria: la ricerca del nuovo-sconosciuto e la riaffermazione del vecchio-conosciuto.
È l'instabilità che ci fa saldi ormai negli sradicamenti quotidiani, e non c'è modo di fuggire dall’immanenza del presente prossimo.

Rivendico che ogni istante della mia vita non vada sprecato, rivendico la mia attualità, non sacrificandola in nome di una potenziale serenità futura.
La serenità in natura non esiste, è un invenzione narrativa dell’uomo.Il lieto fine, per tautologia, chiude la narrazione, il film, la storia; significherebbe che oltre non c'è nulla, resta il bianco di una pagina, il buio di uno schermo, il vuoto di un mondo scomparso. Tutto ciò che ci ha portato fino a lì, che valeva la pena di essere letto,visto o vissuto riguarda lo sviluppo, non la conclusione.
La chiusura segna la fine della diegesi, della narrazione, di quel mondo possibile e immaginabile.
Non c' è più niente da dire, né da fare. Si muore, insomma.È la diegesi che ci interessa, non la pagina bianca dopo l'ultimo punto.

ceccomo, kid A, creek



1 Sempre meno diffusa nella propaganda mainstream è invece una morale apologetica della monogamia o della fedeltà. Ma la riaffermazione del lieto fine non significa sottendere questi valori attraverso un espediente narrativo?

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