venerdì 4 novembre 2016

Qui ci manca tutto, non ci serve niente: breve storia del Giambellino

[L'articolo contiene parti di due chiacchierate risalenti all'autunno del 2015. Ringrazio e saluto Alessandro e Livio e tutti gli abitanti del quartiere che hanno contribuito a questa piccola ricerca.]

                                                                                                        A Marta e Gino. 


 Bambini alla Base di Solidarietà Popolare di via Manzano.

Via Segneri taglia in diagonale il blocco di case popolari chiuso tra via Odazio, via Giambellino, via Inganni e via Lorenteggio, un rettangolo di palazzi a quattro piani costruiti negli anni Quaranta per alloggiare gli operai del complesso industriale adiacente. Alessandro ci è nato quarantotto anni fa e mi dice che da allora ci hanno ammazzato sette persone, in questa via: “sai dirmi un altro posto a Milano con una storia così?”. Stiamo chiacchierando su un marciapiede, intorno a noi bambini che giocano e gente indaffarata con panche, tavoli e un generatore elettrico: ci sarà un’assemblea di inquilini, poi una cena. Il quartiere è il Giambellino, periferia sud-ovest di Milano con un piede in centro: Porta Genova e via Tortona sono a venti minuti di cammino, per chi ha un buon passo, con le gallerie d’arte, i baretti alla moda e i navigli. Sono quasi le sette e a novembre è già buio come a mezzanotte. Alessandro mi dice che non si fida degli stranieri che abitano nel quartiere: lasciano i rifiuti per strada, dice, e portano malattie, da quando ci sono loro il quartiere è peggiorato. Non sembra esserci contraddizione tra questa convinzione e il ricordo di quando gli eroinomani rapinavano lui e i suoi compagni di scuola per cento lire, nei primi anni '80. - e nemmeno col fatto che lui stesso ha avuto qualche problema col tribunale, come mi accenna di sfuggita.

In Giambellino gli appartamenti hanno superfici medie tra i 24 e i  65 m2 (la “soglia di abitabilità” prevista dalla Regione Lombardia è di 28,8 m2 e questo rende 50 abitazioni non assegnabili). Dalla loro costruzione gli edifici hanno beneficiato solo di parziali restauri pagati dal comune, tenuti in buono stato sopratutto dalla manutenzione spontanea da parte degli abitanti.

Quando nel 1938 l’Istituto Fascista Case Popolari inizia a costruire la borgata in mezzo ai campi la intitola a due caduti della guerra di Spagna, a ribadire che l’edilizia sociale non ha solo fini pratici ma anche teoretici: in continuità con la tradizione del Regno, infatti, essa viene concepita dal regime fascista come una parte della “educazione morale” del cittadino.
Nel 1922, un mese prima della nomina di Mussolini a primo ministro, Innocenzo Costantini -dirigente dell’Istituto Case Popolari prima a Milano poi a Roma- idea commissioni consultive di inquilini che saranno l’unico punto di contatto con le istituzioni e che hanno come membri “capifamiglia maschi in regola con il pagamento dell’affitto e residenti nelle case IACP da almeno un anno1;”, la cui funzione afferma esplicitamente essere il controllo della socialità e delle istanze politiche degli inquilini: “certamente che questi organi presentano anche dei pericoli che occorre oculatamente anti vedere e prevenire. Ma questi pericoli non si sopprimono sbarrando il passo ad organi del genere. Essi si formano lo stesso disordinatamente, all’infuori di noi, essi ci sono già, si chiamano Comitati Pro-Quartiere, Lega degli inquilini, ecc. […]. È evidente il vantaggio di incanalarle [queste organizzazioni], guidarle in determinati confini, sottrarle alle visioni particolaristiche e magari non confessabili dell’individuo o del progetto2;”. Saggiamente Costantini capisce che gli abitanti di un quartiere possono sviluppare rivendicazioni comuni e costruire forme di autogestione, e disinnesca questa possibilità di “sovversione” costruendo pseudo-assemblee senza altro potere che “presentare osservazioni o fornire, su richiesta, informazioni o pareri1;” (corsivo mio): con un piccolo capolavoro di politica sociale, il bisogno di solidarietà e socialità viene incanalato in forme che hanno come scopo il controllo del territorio e la repressione di solidarietà e socialità tramite la delazione3;. Le parole d’ordine sono quelle delle più recenti campagne elettorali: pulizia, igiene, quiete e morale. Con l’avvento del fascismo vengono istituite nuove istituzioni educative e ricreative, “in modo da creare tutto un insieme organico e salutare […] guidat[o] al più sano spirito fascista4”. A Roma un esperimento-pilota, gli Alberghi della Garbatella, fallisce per il costo eccessivo dei sistemi assistenziali-pedagogici, miranti a inquadrare i “nuovi cittadini” in un sistema ordinato uniforme e a far coincidere Stato e famiglia: pure, l’abolizione delle forme di assistenza coatta viene giudicata inaccettabile perché favorirebbe l’insorgere di un “pericolo dal punto di vista morale, politico ed igienico”. Inoltre la selezione degli inquilini, già prima improntata a criteri di affidabilità morale oltre che economica (famiglie di lavoratori con figli e reddito fisso), fissa una sorta di standard a cui il proletariato deve aspirare; famiglie numerose e reduci di guerra vengono privilegiati in caso di penuria di alloggi.
Il modello dell’edilizia popolare fascista, oltre a presentare una evidente continuità con quello sabaudo, si caratterizza per una particolare impostazione che unisce controllo dell’inquilino e formazione ideologica lavorando a livello esplicito ed implicito: da una parte un apparato poliziesco a disposizione dell’Ufficio Amministrativo dell’ IAFCP, dall’altro un insieme di norme e strutture che vietano e costringono secondo l’esigenza del Partito della Nazione.

 Un residente ferito dai carabinieri durante lo sgombero di una casa occupata in via dei Vespri Siciliani, il 17 novembre 2014.

Livio arriva a Milano nei primi anni '70 da Gela, dove fa ancora in tempo a fare il bagno alla spiaggia cittadina: “ci sono tornato qualche anno fa, e non si sentiva più l'odore del mare. La raffineria ha rovinato il mare per chilometri attorno, senti e vedi le onde ma non senti nessun'odore, è come stare in un parcheggio”. Abita con la famiglia prima nelle case popolari del Comune dietro corso XXII marzo, poi quando vengono demolite e ricostruite per 'riqualificare' la zona l'affitto sale e il Comune assegna alla sua famiglia un appartamento nei complessi IACP (Istituto Assegnazione Case Popolari) in Giambellino. Da allora non ha mai abitato fuori dal quartiere, e ad ogni trasloco si è spostato solo di qualche via. Lavora da quando ha sedici anni come tecnico di manutenzione degli ascensori, il suo primo lavoro dopo la fine delle scuole (ovviamente frequentate nel quartiere).
Il cameriere che ci porta i caffè in un bar anonimo di via Inganni è cinese, la clientela è interamente composta da nordafricani che bevono birre in bottiglia guardando un film ambientato in un pacchiano medioevo orientale. Fuori qualche macchina e pochi passanti si muovono sotto i lampioni gialli. Quasi tutti gli edifici a sud della via sono più giovani di Livio, che giocava nei campi incolti dove ora si articola la periferia esterna, fatta di palazzi di sette piani, supermercati e magazzini. A quei tempi la zona era quasi estranea alla città, e l'identità di quartiere un sentimento concreto favorito dall'assenza, percepita e reale, di qualsiasi autorità istituzionale fuori dalla polizia: la manutenzione delle case IACP era un compito assolto dagli abitanti stessi, che intervenivano come potevano alle carenze strutturali di un'edilizia da tempo di guerra. L'illegalità spicciola si fonde con quella delle grosse bande criminali e con le prime organizzazioni politiche clandestine.
Gli operai italiani impiegati in Francia che furono rimpatriati o espulsi allo scoppio della seconda guerra mondiale hanno sono stati tra i primi “stranieri” del quartiere, dopo i “napoletani”, i “terroni” sfollati durante l'invasione americana del Sud Italia; entrambe le comunità avevano perso tutto e portarono con sé un'antifascismo spontaneo che si adattò bene con la radicalità delle rivendicazioni operaie degli anni '50. I “francesi” avevano lasciato l'Italia perché contrari al regime o semplicemente in cerca di un lavoro, e in entrambi i casi la guerra fascista li aveva costretti a tornare indietro perdendo le sicurezze accumulate cogli anni.
Durante il conflitto le strade del quartiere sono terreno di guerra civile: i partigiani si scontrano con l'esercito tedesco e la polizia fascista in una serie di agguati e sabotaggi, e ad ogni morto in divisa seguono arresti e rappresaglie. Gino Montemezzani, partigiano e operaio, viveva con la la famiglia (10 persone tra parenti stretti e acquisiti) in un trilocale di una delle case popolari, ricorda nel suo libro di memorie: 
Il gruppo di fascisti fece scendere dalla macchina un giovane intimando gli di girarsi e  andarsene. Fece un solo passo e una raffica alla nuca, fuoruscendo all'altezza degli occhi gli distrusse il cervello. Se ne andarono così. Pochi secondi, tutto finito. Restammo annichiliti, furibondi, impotenti.
La rabbia e l'odio ci soffocavano. Sentivo il magone che  mi saliva dall'intestino. Quell’uomo ancor giovane vestito di pochi stracci e scalzo aveva in tasca solo una immaginetta religiosa e un pezzettino di sapone. Nient’altro. L'avevano tirato fuori da chi sa dove solo per assassinarlo in una qualsiasi strada a monito per gli antifascisti
.
Per tutti gli anni '50 e '60 lo sviluppo economico convive con una situazione sociale tesissima: centinaia di migliaia di lavoratori si battono per i propri diritti, decisi a dire la loro nella gestione di fabbriche e aziende, convinti che la democrazia non significhi solo uguaglianza politica ma anche sociale. Il Giambellino incarna il clima del tempo: nascono nuove fabbriche in cui lavorano centinaia di abitanti del quartire, nascono gruppi “a sinistra del Partito Comunista”  che tentano di integrare l'esperienza partigiana con la critica ai sindacati e ai partiti di sinistra, alimentati dall'esplosione demografica e dalle migliaia di profughi economici dal Sud Italia, forza lavoro per le grandi fabbriche. Gino racconta così la nascita del primo collettivo politico maoista a Milano, il Gruppo Luglio '60: “dopo la caduta di Stalin e la rottura [da parte del PCI] con la Cina di Mao, si apre nella sezione Battaglia del PCI del Lorenteggio-Giambellino un dibattito aspro e ampio”5 che porta un centinaio di militanti ad abbandonare il Partito Comunista e a formare un gruppo autonomo intitolato al “mese insurrezionale” in cui l'ingresso nella coalizione di governo del partito fascista Movimento Sociale Italiano aveva provocato una enorme mobilitazione popolare, che periodicamente portava a duri scontri con le forze dell'ordine e a scioperi generali in varie città6. Questi “comunisti orfani del PCI” si erano trovati isolati da partito e sindacato durante le lotte in fabbrica e avevano fatto del loro essere “cani sciolti” il loro punto di forza, partecipando “alle prime occupazioni di case (via Mac Mahon), alle prime molotov negli scontri di piazza”, collegando le rivendicazioni operaie al movimento pacifista e antimilitarista.

Militanti del gruppo armato “Volante Rossa” in corteo nel 1948: partigiani che continuarono a colpire i fascisti anche dopo la fine della guerra.
Secondo Livio non è un caso che un contesto in cui l'emarginazione si sposa con forme primitive di autogoverno abbia ospitato la nascita di un'organizzazione come le Brigate Rosse, che dagli inizi ebbero nel quartiere una forte e radicata presenza. Il quartiere aveva sempre rivendicato un antifascismo radicale che andava da progetti innovativi come il Convitto Rinascita -scuola per alunni dai 15 ai 28 anni che funzionava sull'autogoverno e l'antigerarchia (più volte oggetto di attentati fascisti) - alla difesa attiva del quartiere dalle incursioni nemiche, ad un rapporto di buon vicinato con la malavita della zona, allora fortemente proletaria.
La ligera era composta da ladri d'auto e di appartamento, rapinatori, truffatori ed era quasi una comunità, coi suoi codici e le sue canzoni, che frequentava le stesse trattorie e balere dei lavoratori legali a cui era legata da un certo sentimento di classe: “disprezzavano i fascisti perché stavano sempre dalla parte dei padroni, e i padroni erano odiati. Non ce li sentivamo mai dall'altra parte della barricata. (…) Con noi, più di una volta parteciparono alla difesa del rione dagli assalti dei fascisti”</sup>8<sup/>.
Così quando dopo trent'anni di lotte operaie qualcuno inizia ad alzare il tiro, passando dall'autodifesa all'attacco dello Stato, esiste già un substrato favorevole fatto di solidarietà di classe, di abitudine all'illegalità, del senso di comunità dato dallo studiare, vivere e lavorare fianco a fianco. A volte altoparlanti sui tetti diffondono i comizi dei brigatisti; compaiono enormi stelle cerchiate sull'asfalto degli incroci; girano le prime pistole, procurate si dice da contatti a metà tra ligera e partigiani delusi; in Giambellino alla morte della brigatista Mara Cagol un corteo depone fiori e una sua foto sotto alla lapide dei caduti della Resistenza; all'acciaieria Dalmine di via Gonin (dietro piazza Tirana) gli operai raccolgono fondi per sostenere la lotta armata. La famiglia Morlacchi è l'emblema di questo passaggio: sei fratelli che dalla militanza nel PCI nella sezione del quartiere arrivano alla lotta armata attraverso una progressiva disillusione verso i mezzi legali, scontando ciascuno anni di prigione.

Camminando tra via Manzano, via Segneri e largo Gelsomini, le case, i negozi e gli incroci hanno una storia che solo i vecchi abitanti come Livio sanno raccontare: di fianco a quella tappezzeria c'era una trattoria dove operai, musicisti e gente del “mondo di mezzo” mangiavano gomito a gomito; dove oggi ci sono negozi e parcheggi fino a vent'anni fa stava una delle più grosse discoteche di Milano Sud; e quasi ogni incrocio, portone, semaforo o panchina è la tomba di qualche ragazzo morto di eroina negli anni in cui la città iniziava a vendersi con lo squallido nome di “Milano da Bere” e a perfezionare i rapporti tra mafia, impresa e politica che le dànno la forma attuale.
L'eroina è il grande fantasma del Giambellino. Salta fuori in ogni discorso con ogni abitante con più di trent'anni. Dalla fine degli anni '70 fin dopo l'inizio dei '90 via Odazio fu tra le maggiori piazze di spaccio al dettaglio della Lombardia e quindi d'Italia (e per tutti gli anni '80 forse la maggiore di tutte, ipotizza Livio). Lo stereotipo del parchetto croccante di siringhe e dei tossici sulle panchine potrebbe essere nato qui, vista la frequenza e la precisione con cui varia gente mi parla del giardino attorno alla biblioteca di quartiere (qualcuno ricorda che il Comune la chiuse per togliere un punto di riferimento agli eroinomani che si bucavano nei bagni, ma poi la riaprì perché si bucavano lo stesso ovunque). Per alcuni il rumore della sirena restò per anni associato senza bisogno di pensare a una squadra di soccorritori che carica un corpo in barella su un'ambulanza. Tutti concordano nel ricordare la totale assenza di politiche di prevenzione o assistenza se non sotto forma di posti di blocco dei carabinieri e qualche retata. Gli spacciatori, noti per faccia e per nome agli abitanti, erano raramente attenzionati dalla polizia; qualcuno ragiona così: “[lo spaccio] avveniva alla luce del sole, ed è andato avanti per anni, e tutti lo sapevano – in Comune e in Questura dovevano essere o incompetenti, o disinteressati, o complici per non intervenire9
Quando l'eroina smise di essere una droga di massa (restando comunque presente sul territorio) il tessuto sociale del quartiere era quasi interamente distrutto. L'eroina non fu però la causa di questa “morte sociale” ma piuttosto la fedele compagna di importanti cambiamenti: come il declino della grande industria a favore del terziario e delle piccole imprese, che fece venir meno il senso di comunità spontaneo a chi lavora e vive nella stessa fabbrica e nello stesso quartiere; come la progressiva chiusura di locali e cinema comune a tutta Milano; o la repressione dei movimenti politici autonomi, che avevano un ruolo importante nella vita del quartiere.

Da qualche anno nel quartiere è attivo il Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio, un'organizzazione che comprende attivisti politici e abitanti (spesso le due cose coincidono) con l'obbiettivo di rendere il più possibile autonomo il quartiere dalle decisioni istituzionali, convinti che l'emergenza abitativa di Milano e l'inefficienza di Aler (ora affiancata nella gestione delle case da Metropolitane Milanesi) non siano casuali. La loro soluzione è diretta: “ogni casa sfitta sarà occupata”, dicono.
Decine di appartamenti di proprietà di Comune e Regione sono tenuti vuoti, in parte perché non conformi alla norma sulle metrature in parte perché non assegnati, ma con le utenze (luce, gas, acqua) allacciate e funzionanti. Gli edifici sono spesso bisognosi di interventi di manutenzione immediati, e gli abitanti sono costretti a progettare riparazioni per conto loro: di frequente l'unico ruolo delle agenzie proprietarie delle case è di riscuotere l'affitto.

L'uroboro, dal greco ouroboros, serpente che morde la coda, è simbolo di immortalità: il serpente rinasce ad ogni cambio di pelle, e nel cerchio non ci sono fine o inizio.

L'anima del progetto sta nel suo motto: “qui vivremo bene”. Il comitato riunisce famiglie e persone che spesso aspettano da mesi o anni che la loro richiesta di alloggio venga accettata – alcuni risultano sulla carta assegnatari di un appartamento che però non è stato mai consegnato loro – a fianco di inquilini che non riescono più a pagare l'affitto. Insieme si organizzano per occupare appartamenti sfitti e difendersi dagli sfratti e dagli sgomberi; gestiscono una “Base di Solidarietà Popolare” in via Manzano, un grande trilocale al piano rialzato dove i bambini si ritrovano per studiare e fare merenda e dove si discute dei problemi e delle proposte degli inquilini; ogni mese cene sociali ed eventi animano le strade. Murales colorati interrompono il rosso e giallo dei muri dei palazzi. Dal 2014 la squadra di calcio Ardita Giambellino si allena e gioca con alterne fortune nei tornei amatoriali di Milano, maglia a righe arancioni e nere e uroboro come stemma.
Come in tutta la periferia di Milano la risposta delle autorità all'emergenza abitativa è fatta di belle parole, visite di sindaco e assessori, e polizia antisommossa in gran numero. Come a Corvetto, Barona, Ponte Lambro, San Siro le occupazioni abitative vengono sgomberate con costose operazioni che vedono impiegare decine di agenti e operai che prima costringono gli inquilini ad lasciare l'appartamento e poi procedono alla sua distruzione, sfondando i sanitari e i pavimenti e rimuovendo gli allacci alle utenze. I movimenti per il diritto alla casa stimano il costo medio di uno sgombero intorno ai 10.000 euro, costo mai smentito dal Comune. Ad ogni sfratto ed ogni sgombero seguono rapidamente nuove occupazioni, in alcuni casi ri-occupazioni dello spazio appena perduto.
Giuseppe Sala, ex dirigente di ExpoMilano 2015 e sindaco di Milano per conto del Partito Democratico, ha grandi progetti per la riqualificazione delle periferie, e il Giambellino, con la nuova fermata della Metro 4 in costruzione e la vicinanza alla zona alla moda dei Navigli, è uno dei centri d'interesse. Gli attivisti del quartiere temono che avvenga quello che successe a Ticinese e XXII Marzo, quello che succede quando una zona popolare diventa appetibile per la speculazione: temono che gli interventi di ristrutturazione e i nuovi servizi vengano usati per alzare gli affitti e cacciare i vecchi inquilini, che le case giudicate inabitabili vengano demolite per fare spazio ad appartamenti di lusso, che decine di appartamenti vengano venduti a privati (cosa già avvenuta nel 2014).
Per ora l'unica sicurezza è il ping pong di occupazioni e sgomberi.
Comunque vada, in Giambellino è terreno di scontro tra due modelli di vita incompatibili, tra la legalità predicata dalle istituzioni e l'organizzazione autonoma dei comitati di quartiere. La prima può contare su centinaia di uomini in uniforme e  milioni di euro, ma pretende molto più di quanto offre: belle palazzine e servizi in cambio di affitti fuori portata. L'altra conta unicamente sulla solidarietà tra gli abitanti e punta ad eliminare il concetto stesso di affitto.
Ad ottobre è nata una mensa comune che si riunisce ogni martedì e giovedì per cucinare e mangiare insieme per pochi euro: “Qui si mangia bene”, dicono i cuochi.

b.

1) Luciano Villani, Le borgate del fascismo, Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino, 2012
2) Innocenzo Costantini, Promemoria sul governo degli inquiliniAter, Allegati 1922
3)
Tra gli altri dispositivi di controllo: divieto di sostare nelle scale, negli androni, nei cortili, di stendere panni fuori dalle finestre, di fare riunioni, di danzare; visite periodiche di ispettori e custodi negli stabili e negli appartamenti; rescissione del contratto di affitto per “immoralità”; premi per gli inquilini più ligi al regolamento; presenza nel quartiere di corpi paramilitari (camicie nere); oltre ovviamente a multe e periodiche ondate di sfratti di inquilini “cronicamente morosi o indesiderabili”.
4)
Innocenzo Costantini, L’Istituto per le case popolari in Roma dal 1903 al 1926, Ater, Allegati 1927
5)
Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Roman, Edizioni LiberEtà, 2006. Disponibile interamente online: http://www.pernondimenticare.net/documenti/pubblicazioni/288-come-stai-compagno-mao
6)
Montemezzani, 2006
7)
Il 30 giugno 1960 un corteo di protesta contro il congresso nazionale dell'MSI a Genova termina con scontri che durano ore; il 5 luglio a Licata durante il blocco della stazione la polizia uccide un manifestante; il 7 a Reggio Emilia i carabinieri sparano coi mitra su un corteo di 20 000 persone facendo cinque morti; gli scontri continuano in tutta Italia fino alle dimissioni del governo il 13 luglio.
8) Montemezzani, 2006
9)
Sulle connessioni tra governi e droghe un buon esempio è la condanna al generale dei carabinieri Giampaolo Ganzer accusato di aver utilizzato il Reparto Operazioni Speciali per gestire un grosso traffico di armi e droga tra il 1991 e il '97. Il reato è stato prescritto in quanto giudicato “di lieve entità”, trattandosi di alcune tonnellate di cocaina e hashish e di fucili d'assalto e lanciagranate, oltre che di alcuni milioni di euro spariti. Altro esempio interessante è l'aumento esponenziale di produzione di papavero da oppio (materiale base per l'eroina) in Afghanistan dopo l'intervento NATO, e la strana catena di morti nell'esercito italiano intorno a questioni di droga [ http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_15/inchiesta-ros-droga-cassazione-riqualifica-imputazioni-scatta-prescrizione-il-generale-ganzer-27066974-bbd9-11e5-b220-7b980aedec77.shtml ].


2 commenti:

  1. Io lo chiamerei comitato occupanti perché si occupa solo di quello. Occupare e non aiutare anche chi ci abita da oltre 30 anni, o come me da 25 e proprietario. Non vi dicono della figuraccia che hanno fatto durante l'ultima assemblea nella sala della chiesa. Non lo sa che i ragazzi sono dei bebestanti. Che posteggiano il suv lontano e arrivano a piedi. Degli insulti che fanno alle forze dell'ordine. Delle mani messe addosso a mia madre di 74 anni. No questo non ve lo dicono.
    Enrico

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Per molti è già un miraggio pagare una casa in affitto a prezzi di mercato, figurati comprarla! E tu invece che questa fortuna l'hai avuta, essendo implicito che hai pure un reddito congruo, sennò col cavolo che la banca ti faceva il mutuo, che cosa fai per chi sta messo peggio e a cui viene pure negato il diritto alla casa? Se ne dovrebbe andare costui a vivere (o crepare) per strada? Per di più questi ragazzi dimostrano la buona volontà anche di aiutare gli altri nelle iniziative dei comitati di quartiere, come la mensa o il doposcuola, oltre a sviluppare un senso solidaristico dal basso e in chiave antirazzista. In quanto alle forze dell'ordine insultate, e capirai, poverine, sanno solo essere la longa manus repressiva di poteri forti e arroganti, dai politicanti agli immobiliaristi e agli speculatori finanziari, sai che bel compito "onesto", in cieca osservanza alla legalità garante di ingiustizia, si sono assunti! :-( Una persona con onestà intellettuale dovrebbe allora evitare i luoghi comuni, a scanso di sputare solo fiele e parlare a vanvera. Roberto

      Elimina