mercoledì 21 dicembre 2016

Serpi in seno. Qualche riga sui fatti di Parma


Non posso fare a meno di ammettere che tutto questo insistere sulla questione del fascismo mi lascia perplesso. Non che io non pensi che lo stupro sia in sé un atto fascista, quando per fascismo si intende in senso lato l'espressione di un potere violento su un corpo inerme e più debole, ma il ritorno ossessivo di questo concetto in tutti i comunicati che ho letto mi sembra celi un problema di ben altra natura. Che uno stupratore non sia un "compagno" è un fatto talmente scontato che non capisco che bisogno ci sia di ripeterlo in continuazione. Credo che si stia effettuando, per usare un termine preso, mio malgrado, dalla psicologia, quella che potrebbe essere chiamata una trasposizione. Ovvero il trasporre, lo spostare inconsciamente il focus di un problema da un punto critico e di ardua comprensione ad un altro, più facile da identificare e di comoda soluzione. Tutto questo insistere sulla questione del fascismo mi sembra sia teso a celare, a non voler vedere il punto fondamentale: cioè che gli stupratori erano proprio "compagni": nel senso che erano perfettamente inseriti nell'ambiente, accettati da tutti, e a quanto pare anche difesi dall'ambiente stesso. Tutti questi anni di omertà lo dimostrano, e non sono dovuti ad un accidentale, deprecabile mancanza di attenzione da parte di chi avrebbe dovuto condannare duramente e da subito il fatto (continuamente, e giustamente, definito fascista) e i suoi esecutori, ma all'emergere di istanze di tipo clanistico e protomafioso nel nostro ambiente che nessuno vuole vedere, pena il riconoscimento di una debolezza profonda e, appunto, di difficile soluzione. Istanze che purtroppo sono radicate e si manifestano in diversi modi, dei quali questo è stato forse il più clamoroso. Oltre al fatto che il "movimento" (altro brutto termine), è pieno zeppo di "poser": gente che sta qui per una semplice questione di circostanze, che qui ha trovato amici e senso di appartenenza, ma che potrebbe stare benissimo da qualsiasi altra parte. In discoteca a provarci con le ragazze insieme a branchi di amici tamarri, vestito bene a fare il fighetto in giro per locali alla moda o, perché no, anche in qualche sede di casa Pound. Ecco perché penso che non ci sia nessun bisogno di stupirsi per il fatto che dei "compagni" abbiano potuto compiere un simile schifoso atto. Questo continuo riproporre l'argomento "fascista" e dell' "Altro da Noi" mi sembra quindi, in realtà, un modo per nascondere, per non voler vedere l'emergere di dinamiche di protezioni e omertà invece tutte nostre, tutte interne alla nostra "struttura" e sulle quali bisognerebbe riflettere sinceramente. Una bella serpe covata in seno insomma.

creek

venerdì 4 novembre 2016

Qui ci manca tutto, non ci serve niente: breve storia del Giambellino

[L'articolo contiene parti di due chiacchierate risalenti all'autunno del 2015. Ringrazio e saluto Alessandro e Livio e tutti gli abitanti del quartiere che hanno contribuito a questa piccola ricerca.]

                                                                                                        A Marta e Gino. 


 Bambini alla Base di Solidarietà Popolare di via Manzano.

Via Segneri taglia in diagonale il blocco di case popolari chiuso tra via Odazio, via Giambellino, via Inganni e via Lorenteggio, un rettangolo di palazzi a quattro piani costruiti negli anni Quaranta per alloggiare gli operai del complesso industriale adiacente. Alessandro ci è nato quarantotto anni fa e mi dice che da allora ci hanno ammazzato sette persone, in questa via: “sai dirmi un altro posto a Milano con una storia così?”. Stiamo chiacchierando su un marciapiede, intorno a noi bambini che giocano e gente indaffarata con panche, tavoli e un generatore elettrico: ci sarà un’assemblea di inquilini, poi una cena. Il quartiere è il Giambellino, periferia sud-ovest di Milano con un piede in centro: Porta Genova e via Tortona sono a venti minuti di cammino, per chi ha un buon passo, con le gallerie d’arte, i baretti alla moda e i navigli. Sono quasi le sette e a novembre è già buio come a mezzanotte. Alessandro mi dice che non si fida degli stranieri che abitano nel quartiere: lasciano i rifiuti per strada, dice, e portano malattie, da quando ci sono loro il quartiere è peggiorato. Non sembra esserci contraddizione tra questa convinzione e il ricordo di quando gli eroinomani rapinavano lui e i suoi compagni di scuola per cento lire, nei primi anni '80. - e nemmeno col fatto che lui stesso ha avuto qualche problema col tribunale, come mi accenna di sfuggita.

In Giambellino gli appartamenti hanno superfici medie tra i 24 e i  65 m2 (la “soglia di abitabilità” prevista dalla Regione Lombardia è di 28,8 m2 e questo rende 50 abitazioni non assegnabili). Dalla loro costruzione gli edifici hanno beneficiato solo di parziali restauri pagati dal comune, tenuti in buono stato sopratutto dalla manutenzione spontanea da parte degli abitanti.

Quando nel 1938 l’Istituto Fascista Case Popolari inizia a costruire la borgata in mezzo ai campi la intitola a due caduti della guerra di Spagna, a ribadire che l’edilizia sociale non ha solo fini pratici ma anche teoretici: in continuità con la tradizione del Regno, infatti, essa viene concepita dal regime fascista come una parte della “educazione morale” del cittadino.
Nel 1922, un mese prima della nomina di Mussolini a primo ministro, Innocenzo Costantini -dirigente dell’Istituto Case Popolari prima a Milano poi a Roma- idea commissioni consultive di inquilini che saranno l’unico punto di contatto con le istituzioni e che hanno come membri “capifamiglia maschi in regola con il pagamento dell’affitto e residenti nelle case IACP da almeno un anno1;”, la cui funzione afferma esplicitamente essere il controllo della socialità e delle istanze politiche degli inquilini: “certamente che questi organi presentano anche dei pericoli che occorre oculatamente anti vedere e prevenire. Ma questi pericoli non si sopprimono sbarrando il passo ad organi del genere. Essi si formano lo stesso disordinatamente, all’infuori di noi, essi ci sono già, si chiamano Comitati Pro-Quartiere, Lega degli inquilini, ecc. […]. È evidente il vantaggio di incanalarle [queste organizzazioni], guidarle in determinati confini, sottrarle alle visioni particolaristiche e magari non confessabili dell’individuo o del progetto2;”. Saggiamente Costantini capisce che gli abitanti di un quartiere possono sviluppare rivendicazioni comuni e costruire forme di autogestione, e disinnesca questa possibilità di “sovversione” costruendo pseudo-assemblee senza altro potere che “presentare osservazioni o fornire, su richiesta, informazioni o pareri1;” (corsivo mio): con un piccolo capolavoro di politica sociale, il bisogno di solidarietà e socialità viene incanalato in forme che hanno come scopo il controllo del territorio e la repressione di solidarietà e socialità tramite la delazione3;. Le parole d’ordine sono quelle delle più recenti campagne elettorali: pulizia, igiene, quiete e morale. Con l’avvento del fascismo vengono istituite nuove istituzioni educative e ricreative, “in modo da creare tutto un insieme organico e salutare […] guidat[o] al più sano spirito fascista4”. A Roma un esperimento-pilota, gli Alberghi della Garbatella, fallisce per il costo eccessivo dei sistemi assistenziali-pedagogici, miranti a inquadrare i “nuovi cittadini” in un sistema ordinato uniforme e a far coincidere Stato e famiglia: pure, l’abolizione delle forme di assistenza coatta viene giudicata inaccettabile perché favorirebbe l’insorgere di un “pericolo dal punto di vista morale, politico ed igienico”. Inoltre la selezione degli inquilini, già prima improntata a criteri di affidabilità morale oltre che economica (famiglie di lavoratori con figli e reddito fisso), fissa una sorta di standard a cui il proletariato deve aspirare; famiglie numerose e reduci di guerra vengono privilegiati in caso di penuria di alloggi.
Il modello dell’edilizia popolare fascista, oltre a presentare una evidente continuità con quello sabaudo, si caratterizza per una particolare impostazione che unisce controllo dell’inquilino e formazione ideologica lavorando a livello esplicito ed implicito: da una parte un apparato poliziesco a disposizione dell’Ufficio Amministrativo dell’ IAFCP, dall’altro un insieme di norme e strutture che vietano e costringono secondo l’esigenza del Partito della Nazione.

 Un residente ferito dai carabinieri durante lo sgombero di una casa occupata in via dei Vespri Siciliani, il 17 novembre 2014.

Livio arriva a Milano nei primi anni '70 da Gela, dove fa ancora in tempo a fare il bagno alla spiaggia cittadina: “ci sono tornato qualche anno fa, e non si sentiva più l'odore del mare. La raffineria ha rovinato il mare per chilometri attorno, senti e vedi le onde ma non senti nessun'odore, è come stare in un parcheggio”. Abita con la famiglia prima nelle case popolari del Comune dietro corso XXII marzo, poi quando vengono demolite e ricostruite per 'riqualificare' la zona l'affitto sale e il Comune assegna alla sua famiglia un appartamento nei complessi IACP (Istituto Assegnazione Case Popolari) in Giambellino. Da allora non ha mai abitato fuori dal quartiere, e ad ogni trasloco si è spostato solo di qualche via. Lavora da quando ha sedici anni come tecnico di manutenzione degli ascensori, il suo primo lavoro dopo la fine delle scuole (ovviamente frequentate nel quartiere).
Il cameriere che ci porta i caffè in un bar anonimo di via Inganni è cinese, la clientela è interamente composta da nordafricani che bevono birre in bottiglia guardando un film ambientato in un pacchiano medioevo orientale. Fuori qualche macchina e pochi passanti si muovono sotto i lampioni gialli. Quasi tutti gli edifici a sud della via sono più giovani di Livio, che giocava nei campi incolti dove ora si articola la periferia esterna, fatta di palazzi di sette piani, supermercati e magazzini. A quei tempi la zona era quasi estranea alla città, e l'identità di quartiere un sentimento concreto favorito dall'assenza, percepita e reale, di qualsiasi autorità istituzionale fuori dalla polizia: la manutenzione delle case IACP era un compito assolto dagli abitanti stessi, che intervenivano come potevano alle carenze strutturali di un'edilizia da tempo di guerra. L'illegalità spicciola si fonde con quella delle grosse bande criminali e con le prime organizzazioni politiche clandestine.
Gli operai italiani impiegati in Francia che furono rimpatriati o espulsi allo scoppio della seconda guerra mondiale hanno sono stati tra i primi “stranieri” del quartiere, dopo i “napoletani”, i “terroni” sfollati durante l'invasione americana del Sud Italia; entrambe le comunità avevano perso tutto e portarono con sé un'antifascismo spontaneo che si adattò bene con la radicalità delle rivendicazioni operaie degli anni '50. I “francesi” avevano lasciato l'Italia perché contrari al regime o semplicemente in cerca di un lavoro, e in entrambi i casi la guerra fascista li aveva costretti a tornare indietro perdendo le sicurezze accumulate cogli anni.
Durante il conflitto le strade del quartiere sono terreno di guerra civile: i partigiani si scontrano con l'esercito tedesco e la polizia fascista in una serie di agguati e sabotaggi, e ad ogni morto in divisa seguono arresti e rappresaglie. Gino Montemezzani, partigiano e operaio, viveva con la la famiglia (10 persone tra parenti stretti e acquisiti) in un trilocale di una delle case popolari, ricorda nel suo libro di memorie: 
Il gruppo di fascisti fece scendere dalla macchina un giovane intimando gli di girarsi e  andarsene. Fece un solo passo e una raffica alla nuca, fuoruscendo all'altezza degli occhi gli distrusse il cervello. Se ne andarono così. Pochi secondi, tutto finito. Restammo annichiliti, furibondi, impotenti.
La rabbia e l'odio ci soffocavano. Sentivo il magone che  mi saliva dall'intestino. Quell’uomo ancor giovane vestito di pochi stracci e scalzo aveva in tasca solo una immaginetta religiosa e un pezzettino di sapone. Nient’altro. L'avevano tirato fuori da chi sa dove solo per assassinarlo in una qualsiasi strada a monito per gli antifascisti
.
Per tutti gli anni '50 e '60 lo sviluppo economico convive con una situazione sociale tesissima: centinaia di migliaia di lavoratori si battono per i propri diritti, decisi a dire la loro nella gestione di fabbriche e aziende, convinti che la democrazia non significhi solo uguaglianza politica ma anche sociale. Il Giambellino incarna il clima del tempo: nascono nuove fabbriche in cui lavorano centinaia di abitanti del quartire, nascono gruppi “a sinistra del Partito Comunista”  che tentano di integrare l'esperienza partigiana con la critica ai sindacati e ai partiti di sinistra, alimentati dall'esplosione demografica e dalle migliaia di profughi economici dal Sud Italia, forza lavoro per le grandi fabbriche. Gino racconta così la nascita del primo collettivo politico maoista a Milano, il Gruppo Luglio '60: “dopo la caduta di Stalin e la rottura [da parte del PCI] con la Cina di Mao, si apre nella sezione Battaglia del PCI del Lorenteggio-Giambellino un dibattito aspro e ampio”5 che porta un centinaio di militanti ad abbandonare il Partito Comunista e a formare un gruppo autonomo intitolato al “mese insurrezionale” in cui l'ingresso nella coalizione di governo del partito fascista Movimento Sociale Italiano aveva provocato una enorme mobilitazione popolare, che periodicamente portava a duri scontri con le forze dell'ordine e a scioperi generali in varie città6. Questi “comunisti orfani del PCI” si erano trovati isolati da partito e sindacato durante le lotte in fabbrica e avevano fatto del loro essere “cani sciolti” il loro punto di forza, partecipando “alle prime occupazioni di case (via Mac Mahon), alle prime molotov negli scontri di piazza”, collegando le rivendicazioni operaie al movimento pacifista e antimilitarista.

Militanti del gruppo armato “Volante Rossa” in corteo nel 1948: partigiani che continuarono a colpire i fascisti anche dopo la fine della guerra.
Secondo Livio non è un caso che un contesto in cui l'emarginazione si sposa con forme primitive di autogoverno abbia ospitato la nascita di un'organizzazione come le Brigate Rosse, che dagli inizi ebbero nel quartiere una forte e radicata presenza. Il quartiere aveva sempre rivendicato un antifascismo radicale che andava da progetti innovativi come il Convitto Rinascita -scuola per alunni dai 15 ai 28 anni che funzionava sull'autogoverno e l'antigerarchia (più volte oggetto di attentati fascisti) - alla difesa attiva del quartiere dalle incursioni nemiche, ad un rapporto di buon vicinato con la malavita della zona, allora fortemente proletaria.
La ligera era composta da ladri d'auto e di appartamento, rapinatori, truffatori ed era quasi una comunità, coi suoi codici e le sue canzoni, che frequentava le stesse trattorie e balere dei lavoratori legali a cui era legata da un certo sentimento di classe: “disprezzavano i fascisti perché stavano sempre dalla parte dei padroni, e i padroni erano odiati. Non ce li sentivamo mai dall'altra parte della barricata. (…) Con noi, più di una volta parteciparono alla difesa del rione dagli assalti dei fascisti”</sup>8<sup/>.
Così quando dopo trent'anni di lotte operaie qualcuno inizia ad alzare il tiro, passando dall'autodifesa all'attacco dello Stato, esiste già un substrato favorevole fatto di solidarietà di classe, di abitudine all'illegalità, del senso di comunità dato dallo studiare, vivere e lavorare fianco a fianco. A volte altoparlanti sui tetti diffondono i comizi dei brigatisti; compaiono enormi stelle cerchiate sull'asfalto degli incroci; girano le prime pistole, procurate si dice da contatti a metà tra ligera e partigiani delusi; in Giambellino alla morte della brigatista Mara Cagol un corteo depone fiori e una sua foto sotto alla lapide dei caduti della Resistenza; all'acciaieria Dalmine di via Gonin (dietro piazza Tirana) gli operai raccolgono fondi per sostenere la lotta armata. La famiglia Morlacchi è l'emblema di questo passaggio: sei fratelli che dalla militanza nel PCI nella sezione del quartiere arrivano alla lotta armata attraverso una progressiva disillusione verso i mezzi legali, scontando ciascuno anni di prigione.

Camminando tra via Manzano, via Segneri e largo Gelsomini, le case, i negozi e gli incroci hanno una storia che solo i vecchi abitanti come Livio sanno raccontare: di fianco a quella tappezzeria c'era una trattoria dove operai, musicisti e gente del “mondo di mezzo” mangiavano gomito a gomito; dove oggi ci sono negozi e parcheggi fino a vent'anni fa stava una delle più grosse discoteche di Milano Sud; e quasi ogni incrocio, portone, semaforo o panchina è la tomba di qualche ragazzo morto di eroina negli anni in cui la città iniziava a vendersi con lo squallido nome di “Milano da Bere” e a perfezionare i rapporti tra mafia, impresa e politica che le dànno la forma attuale.
L'eroina è il grande fantasma del Giambellino. Salta fuori in ogni discorso con ogni abitante con più di trent'anni. Dalla fine degli anni '70 fin dopo l'inizio dei '90 via Odazio fu tra le maggiori piazze di spaccio al dettaglio della Lombardia e quindi d'Italia (e per tutti gli anni '80 forse la maggiore di tutte, ipotizza Livio). Lo stereotipo del parchetto croccante di siringhe e dei tossici sulle panchine potrebbe essere nato qui, vista la frequenza e la precisione con cui varia gente mi parla del giardino attorno alla biblioteca di quartiere (qualcuno ricorda che il Comune la chiuse per togliere un punto di riferimento agli eroinomani che si bucavano nei bagni, ma poi la riaprì perché si bucavano lo stesso ovunque). Per alcuni il rumore della sirena restò per anni associato senza bisogno di pensare a una squadra di soccorritori che carica un corpo in barella su un'ambulanza. Tutti concordano nel ricordare la totale assenza di politiche di prevenzione o assistenza se non sotto forma di posti di blocco dei carabinieri e qualche retata. Gli spacciatori, noti per faccia e per nome agli abitanti, erano raramente attenzionati dalla polizia; qualcuno ragiona così: “[lo spaccio] avveniva alla luce del sole, ed è andato avanti per anni, e tutti lo sapevano – in Comune e in Questura dovevano essere o incompetenti, o disinteressati, o complici per non intervenire9
Quando l'eroina smise di essere una droga di massa (restando comunque presente sul territorio) il tessuto sociale del quartiere era quasi interamente distrutto. L'eroina non fu però la causa di questa “morte sociale” ma piuttosto la fedele compagna di importanti cambiamenti: come il declino della grande industria a favore del terziario e delle piccole imprese, che fece venir meno il senso di comunità spontaneo a chi lavora e vive nella stessa fabbrica e nello stesso quartiere; come la progressiva chiusura di locali e cinema comune a tutta Milano; o la repressione dei movimenti politici autonomi, che avevano un ruolo importante nella vita del quartiere.

Da qualche anno nel quartiere è attivo il Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio, un'organizzazione che comprende attivisti politici e abitanti (spesso le due cose coincidono) con l'obbiettivo di rendere il più possibile autonomo il quartiere dalle decisioni istituzionali, convinti che l'emergenza abitativa di Milano e l'inefficienza di Aler (ora affiancata nella gestione delle case da Metropolitane Milanesi) non siano casuali. La loro soluzione è diretta: “ogni casa sfitta sarà occupata”, dicono.
Decine di appartamenti di proprietà di Comune e Regione sono tenuti vuoti, in parte perché non conformi alla norma sulle metrature in parte perché non assegnati, ma con le utenze (luce, gas, acqua) allacciate e funzionanti. Gli edifici sono spesso bisognosi di interventi di manutenzione immediati, e gli abitanti sono costretti a progettare riparazioni per conto loro: di frequente l'unico ruolo delle agenzie proprietarie delle case è di riscuotere l'affitto.

L'uroboro, dal greco ouroboros, serpente che morde la coda, è simbolo di immortalità: il serpente rinasce ad ogni cambio di pelle, e nel cerchio non ci sono fine o inizio.

L'anima del progetto sta nel suo motto: “qui vivremo bene”. Il comitato riunisce famiglie e persone che spesso aspettano da mesi o anni che la loro richiesta di alloggio venga accettata – alcuni risultano sulla carta assegnatari di un appartamento che però non è stato mai consegnato loro – a fianco di inquilini che non riescono più a pagare l'affitto. Insieme si organizzano per occupare appartamenti sfitti e difendersi dagli sfratti e dagli sgomberi; gestiscono una “Base di Solidarietà Popolare” in via Manzano, un grande trilocale al piano rialzato dove i bambini si ritrovano per studiare e fare merenda e dove si discute dei problemi e delle proposte degli inquilini; ogni mese cene sociali ed eventi animano le strade. Murales colorati interrompono il rosso e giallo dei muri dei palazzi. Dal 2014 la squadra di calcio Ardita Giambellino si allena e gioca con alterne fortune nei tornei amatoriali di Milano, maglia a righe arancioni e nere e uroboro come stemma.
Come in tutta la periferia di Milano la risposta delle autorità all'emergenza abitativa è fatta di belle parole, visite di sindaco e assessori, e polizia antisommossa in gran numero. Come a Corvetto, Barona, Ponte Lambro, San Siro le occupazioni abitative vengono sgomberate con costose operazioni che vedono impiegare decine di agenti e operai che prima costringono gli inquilini ad lasciare l'appartamento e poi procedono alla sua distruzione, sfondando i sanitari e i pavimenti e rimuovendo gli allacci alle utenze. I movimenti per il diritto alla casa stimano il costo medio di uno sgombero intorno ai 10.000 euro, costo mai smentito dal Comune. Ad ogni sfratto ed ogni sgombero seguono rapidamente nuove occupazioni, in alcuni casi ri-occupazioni dello spazio appena perduto.
Giuseppe Sala, ex dirigente di ExpoMilano 2015 e sindaco di Milano per conto del Partito Democratico, ha grandi progetti per la riqualificazione delle periferie, e il Giambellino, con la nuova fermata della Metro 4 in costruzione e la vicinanza alla zona alla moda dei Navigli, è uno dei centri d'interesse. Gli attivisti del quartiere temono che avvenga quello che successe a Ticinese e XXII Marzo, quello che succede quando una zona popolare diventa appetibile per la speculazione: temono che gli interventi di ristrutturazione e i nuovi servizi vengano usati per alzare gli affitti e cacciare i vecchi inquilini, che le case giudicate inabitabili vengano demolite per fare spazio ad appartamenti di lusso, che decine di appartamenti vengano venduti a privati (cosa già avvenuta nel 2014).
Per ora l'unica sicurezza è il ping pong di occupazioni e sgomberi.
Comunque vada, in Giambellino è terreno di scontro tra due modelli di vita incompatibili, tra la legalità predicata dalle istituzioni e l'organizzazione autonoma dei comitati di quartiere. La prima può contare su centinaia di uomini in uniforme e  milioni di euro, ma pretende molto più di quanto offre: belle palazzine e servizi in cambio di affitti fuori portata. L'altra conta unicamente sulla solidarietà tra gli abitanti e punta ad eliminare il concetto stesso di affitto.
Ad ottobre è nata una mensa comune che si riunisce ogni martedì e giovedì per cucinare e mangiare insieme per pochi euro: “Qui si mangia bene”, dicono i cuochi.

b.

1) Luciano Villani, Le borgate del fascismo, Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino, 2012
2) Innocenzo Costantini, Promemoria sul governo degli inquiliniAter, Allegati 1922
3)
Tra gli altri dispositivi di controllo: divieto di sostare nelle scale, negli androni, nei cortili, di stendere panni fuori dalle finestre, di fare riunioni, di danzare; visite periodiche di ispettori e custodi negli stabili e negli appartamenti; rescissione del contratto di affitto per “immoralità”; premi per gli inquilini più ligi al regolamento; presenza nel quartiere di corpi paramilitari (camicie nere); oltre ovviamente a multe e periodiche ondate di sfratti di inquilini “cronicamente morosi o indesiderabili”.
4)
Innocenzo Costantini, L’Istituto per le case popolari in Roma dal 1903 al 1926, Ater, Allegati 1927
5)
Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Roman, Edizioni LiberEtà, 2006. Disponibile interamente online: http://www.pernondimenticare.net/documenti/pubblicazioni/288-come-stai-compagno-mao
6)
Montemezzani, 2006
7)
Il 30 giugno 1960 un corteo di protesta contro il congresso nazionale dell'MSI a Genova termina con scontri che durano ore; il 5 luglio a Licata durante il blocco della stazione la polizia uccide un manifestante; il 7 a Reggio Emilia i carabinieri sparano coi mitra su un corteo di 20 000 persone facendo cinque morti; gli scontri continuano in tutta Italia fino alle dimissioni del governo il 13 luglio.
8) Montemezzani, 2006
9)
Sulle connessioni tra governi e droghe un buon esempio è la condanna al generale dei carabinieri Giampaolo Ganzer accusato di aver utilizzato il Reparto Operazioni Speciali per gestire un grosso traffico di armi e droga tra il 1991 e il '97. Il reato è stato prescritto in quanto giudicato “di lieve entità”, trattandosi di alcune tonnellate di cocaina e hashish e di fucili d'assalto e lanciagranate, oltre che di alcuni milioni di euro spariti. Altro esempio interessante è l'aumento esponenziale di produzione di papavero da oppio (materiale base per l'eroina) in Afghanistan dopo l'intervento NATO, e la strana catena di morti nell'esercito italiano intorno a questioni di droga [ http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_15/inchiesta-ros-droga-cassazione-riqualifica-imputazioni-scatta-prescrizione-il-generale-ganzer-27066974-bbd9-11e5-b220-7b980aedec77.shtml ].


venerdì 21 ottobre 2016

“Non ho avuto pietà di questa gente”. Ticinese e Porta Genova: breve storia di un Naviglio popolare



«La fossa che circondava le mura della città antica fu modificata ed ampliata sotto Ludovico il Moro (1496; la tradizione vuole per opera ingegneresca di Leonardo), in modo da introdurvi le acque del Naviglio. L'anello, di circa cinque chilometri, fu detto «Naviglio interno». Il tratto che passava davanti all'Ospedale Maggiore (oggi via Francesco Sforza) era comunemente chiamato «il Naviglio dell'Ospedale». Se ne può avere un'immagine particolareggiata da un disegno del Migliara (riprodotto nella Storia di Milano, XVI, p. 831) e da un quadro di anonimo, pure verso la metà dell'Ottocento, del Museo di Milano (ibid., p. 28).

Tombon de San March”: cosí si era soliti “chiamare, con una metonimia popolare, lo slargo del Naviglio nei pressi della chiesa di San Marco (...) Ragazze tradite e uomini disperati venivano, fino a pochi anni fa, ad annegar nell'acqua torpida del Tombone le pene dell'amore e quelle della miseria” (Bacchelli, art. cit.)». 
Dante Isella.1

Nel 1928, o se si vuole a partire dal VI anno dell’Era Fascista, un certo Albertini, ingegnere capo dell’ufficio urbanistico del comune di Milano, dichiara con un comunicato ufficiale: «il Naviglio è un pericolo sociale per l’attrazione che esercita sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi; è un pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare. Del resto nella nuova vita italiana voluta dal Fascismo, le ragioni di affermazione e miglioramento della razza debbono avere il sopravvento sopra ogni altra considerazione. La vita delle nostre grandi città è tutta pervasa da uno spirito nuovo di realizzazione e di potenza…».2 Con questo “decreto”, che prometteva «miracoli viabilistici»,3 viene dato avvio al piano urbanistico che porterà all’interramento di tutto il naviglio interno, che delimitava il perimetro della Milano dell’età comunale.

L’anno successivo un grande poeta milanese, molto legato alla città e alla sua geografia, scrive una poesia in dialetto dal titolo Navilii. Delio Tessa, questo è il suo nome, mette in scena un dialogo tra l’acqua e il Naviglio nel tratto che passava davanti all’ospedale Maggiore, in via Larga, oggi Università degli Studi di Milano: il Naviglio parla con la sua acqua, che viene «dai brugher de Tesin dove se cobbiom», dalle brughiere del Ticino dove ci congiungiamo, fra la rurale Turbigo e Boffalora, su a nord. Viene svegliato dalla sirena delle ambulanze che entrano all’ospedale, non riesce a dormire, durante le poche ore di vita che gli rimangono intrattiene l’ ultima conversazione con la sua vecchia amica che scorre fra i sui argini. Stanno venendo a interrarlo, il piano urbanistico ha preso avvio. Ricorda quindi i vecchi tempi, il «tombon de San March», il Tombone di san Marco, pozzo d’acqua profonda in cui si gettavano i suicidi, il caffé Birra Italia, i «temp d'Ara-Bell'Ara!», in cui Berta filava.4 L’acqua lo esorta a dormire. Quante ne abbiamo viste vecchia amica mia… ma in fondo hai ragione, è meglio dormire… ecco che l'è rivaa la ruspa… mi vengono a interrare, e allora dormiamo, vecchia mia, meglio così, perché «In sto mond birba, pien de travaij, l'unech remedi l'è de dormì», in questo mondo furfante, pieno di affanni, l’unico rimedio è dormire.5


Risultati immagini per tombon de san marc milano
Il Tombon de San Marc, il pozzo d'acqua profonda dove si gettavano i suicidi
Suicida si lancia nel Tombon de San Marc, disegno originale di Roxy


Più di trent’anni dopo, nel 1960, un altro poeta meneghino, Elio Pagliarani, narra una storia allora molto comune, molto meno comune come materia narrativa di poeti e scrittori: si tratta della storia di «Carla Dondi […]/ Ambrogio di anni/ diciassette primo impiego stenodattilo/ all’ombra del Duomo». La storia, La ragazza Carla, è ambientata dodici anni prima, nel 1948, e narra della parabola formativa di una ragazza di origini contadine nella metropoli, uno degli innumerevoli casi di immigrazione a scopi lavorativi di una famiglia di campagna nella grande periferia operaia di Milano. Perché sì, via Ripamonti, oggi pieno centro, meta di profumati bevitori di cocktail del sabato sera, allora era periferia estrema:

Di là dal ponte della ferrovia una
traversa di viale Ripamonti
c'è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e
Nerina. Il ponte sta lì buono e sotto passano
treni carri vagoni frenatori e mandrie di macelli
e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che
cammina i camion della frutta di Romagna.

Milano è stata una delle tre città, insieme a Torino e Genova, in un paese ancora profondamente rurale, a sentire le scosse urbanistiche, sociali ed economiche della rivoluzione industriale europea di fine ‘800. Il periodo appunto della Belle Epoque milanese, quello immediatamente precedente la grande guerra, tra il 1903-04 e il 1912-13 , quello che ha visto la buona borghesia meneghina, grazie al proliferare delle industrie e del commercio, darsi all’opulenza e alla vita mondana. Lo stesso che ha anche visto masse di contadini fino allora mai conosciute rispondere all’ «irresistibile richiamo che il mondo cittadino esercitava sulle campagne»:6 in quel periodo il tasso di immigrazione ha iniziato a viaggiare intorno alle 10.000 unità annue. Fu in quel momento che ci furono le prime avvisaglie del cambiamento in atto, in cui, un' altra volta7, e forse in modo ancor più determinante, si verificarono a Milano alcuni dei fenomeni tipici dell’urbanizzazione di massa: l’espulsione del ceto popolare e artigiano dal centro urbano per far posto ad uffici amministrativi e banche, la formazione di enormi quartieri dormitorio operai malserviti e inospitali. Questi quartieri popolari-tipo erano allora (suona strano ma è così) luoghi come il Ticinese, Porta Genova, via Ripamonti. Questo è il motivo per cui un autore di simpatie democratiche e popolari come Delio Tessa scelse per i suoi componimenti di adoperare il dialetto, lingua del ceto artigiano medio-basso che veniva espulso dal centro storico di allora durante il primo grande esodo verso l'esterno.

Tutto ciò, se si esclude il prevedibile periodo di riflusso della Grande Guerra, non fece che aumentare negli anni successivi: nel 1907 gli immigrati registrati arrivarono a 20.000, nel 1913 a 29.000, fino ad arrivare nel 1927 al record di di 46.000 immigrati in un anno.8 Neanche il ventennio fascista, che fece motivo di propaganda l’esaltazione della vita rurale del buon contadino italiano, fermò questa tendenza, che si mantenne stabile durante tutto il periodo. Solo la guerra e l’immediato dopoguerra rappresentarono un freno. Durante questo periodo infatti si registra un forte calo dell’immigrazione a Milano, e in certi momenti il flusso risulta invertito.

La zona della darsena di piazza 24 Maggio e di porta Genova era fortemente popolare. In questo periodo nascono le prime osterie, le taverne operaie dove i lavoratori e gli abitanti del quartiere mangiano, bevono e riescono a trovare qualche momento di socialità e svago, osterie sopravvissute pressappoco per tutti gli anni '70, che hanno contribuito a costruire quell’immaginario così caratteristico che ci è stato tramandato. Proliferano anche le case chiuse e il fenomeno della prostituzione, e, ovviamente, la criminalità. Bambini di strada che si dedicano a furti e rapine, scassinatori, contrabbandieri di refurtiva e sigarette. Tutto ciò era favorito dall’esistenza del porto, il fluviale più grande d'Italia, luogo del contrabbando, dove le navi che scendevano il naviglio dal Ticino cariche di materie prime favorivano, nel tumulto delle attività portuali, lo sviluppo del commercio illegale.


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Il porto della darsena negli anni '50



Non così diversa, dice il Pugni, la Milano dei primi decenni del '900 da quella Parigi narrata mezzo secolo prima da Hugo. Con i suoi affittacamere profittatori, con la sua via della Conca e il Bottunuto di via Larga, che faceva storcere il naso alla Milano bene abitante lì a due passi, poi distrutto nei primi anni '30 dopo il piano regolatore del '26, e tutte le altre zone di malaffare in cui mio nonno ricorda come sua mamma gli sconsigliasse premurosamente di andare a giocare da bambino, con le loro prostitute, i loro ladri e i loro straccioni.

Questa la darsena dei primi due decenni del '900. Poi il piano Albertini del 1934. Cosa fece il piano Albertini? Innanzitutto sotterrò buona parte dei navigli interni, ma, oltre a questo, diede avvio ad un progetto urbanistico che portò all'abbattimento dei quartieri popolari del centro storico situati attorno a piazza Duomo, ridimensionò il quartiere operaio dell'Isola per far spazio agli ammodernamenti ferroviari della stazione di porta Garibaldi, avviò i lavori di costruzione della nuova stazione Centrale. Memore inoltre delle 5 giornate, del biennio rosso del 1919 e '20 e del lavoro che fece a Parigi il collega urbanista Barone Haussman,9 il nostro Albertini sventrò e demolì edifici e giardini della Milano storica nelle zone di via Torino, San Babila e via Larga, per creare quei gran viali milanesi che conosciamo tanto bene in luogo di quei viottoli intricati tanto adatti per le barricate. È il primo passo di un processo che troverà definitivo compimento con la ricostruzione postbellica e che porterà il volto di Milano a divenire totalmente irriconoscibile.


L'effetto principale del piano regolatore fu il significativo ingrossarsi, in quegli anni, delle fila dei milanesi rimasti senza casa. «Una milizia che non poteva permettersi di pagare le pigioni del liberismo economico auspicato dalla borghesia che dopo il 1922 premeva per le soluzioni “finali”. Nel breve lasso di tempo a cavallo tra le due guerre mondiali i piani regolatori e gli interessi “forti”, pur curando a loro modo l'estetica del centro cittadino, gettarono le basi di quella struttura urbana milanese che oggi ben conosciamo. Per far fronte al problema dei senza tetto, si pensò di “periferizzare” questa scomoda popolazione nei territori dei comuni della cinta cittadina che furono accorpati a partire dal 1923».10 La zona del Ticinese e di porta Genova contribuì a ospitare questa tipologia di persone. Nascono le “case minime” per sfrattati in cui si ammassano le migliaia e migliaia di famiglie milanesi rimaste senza casa.11

Penserà la guerra a concludere ciò che Albertini aveva iniziato.

Milano è la città in assoluto più devastata d'Italia, il termine “rasa al suolo”, almeno per quanto riguarda la cerchia dei bastioni, in questo caso va preso alla lettera: «nel solo periodo dei bombardamenti dell'agosto del 1943 andarono completamente persi 1500 edifici, 11.00o furono lesionati irreparabilmente, altri 15.000 furono danneggiati. Tenendo conto che in totale la città contava all'epoca 40.000 fabbricati ad uso civile, non è difficile farsi un idea».12

Due bombardamenti in particolare furono devastanti per la zona del Ticinese e di Porta Genova. Il primo fu il 24 ottobre 1942: una settantina di bombardieri Lancaster inglesi della R.A.F. scaricarono 135 tonnellate di bombe uccidendo 171 persone; il secondo ebbe luogo il 14 febbraio 1943 con più di 120 aerei della R.A.F., l'attacco causò la distruzione di quasi 1000 case, 27 industrie e la morte di 459 civili innocenti.13

I campi profughi di lamiera, senza luce né acqua, per le migliaia di famiglie rimaste senza casa sopravviveranno lungo la circonvallazione e nelle periferie fino alla metà degli anni '60. E' la nascita delle cosiddette coree, che verranno ingrossate dalle fila dell'immigrazione lavorativa degli anni successivi; assolutamente prive di servizi, delle vere e proprie baraccopoli, l'equivalente meneghino delle borgate romane, solo meno istituzionalizzate.14

La ricostruzione postbellica ci regalerà quei capolavori quadrati di razionalismo anni '50 che non mancano mai di rifocillarci la vista ogni volta che usciamo in qualche vialone dalla metropolitana.

Durante gli anni della ricostruzione inizia anche, più rallentata negli anni '50 ma già presente, l'esplosione dell'immigrazione di massa legata al boom economico di cui Milano sarà il motore principale dell'intera penisola, e la zona del Ticinese e di porta Genova vedrà la costruzione di immensi casermoni popolari per rispondere al sovraffollamento della popolazione. Ecco la storia de La ragazza Carla di Pagliarani e quella di migliaia di altri giovani immigrati di origini contadine che vennero a Milano in cerca di fortuna. E fu così che, sempre in quella zona che oggi è una delle mete predilette di quella gioventù patinata e rampante, «nell'incertezza che regnava in una Conca del Naviglio abbandonata a se stessa, tra i muri sbrecciati frammischiati alle impalcature lignee piantate a sorreggere improbabili cartelloni pubblicitari, posti per tamponare i vuoti delle distruzioni dell'ultima guerra, si intensificarono le attività tipiche degli anfratti cittadini scarsamente illuminati. Fu per questo motivo che la zona compresa tra il Ticinese e Porta Genova assunse ben presto nelle cronache una denominazione alquanto esotica: la Kasba».15 E nella Kasba c'è il «tradizionale motore umano di questo agglomerato di attività», la ligera, la mala milanese. Primo Moroni, libraio in Ticinese e testimone attivo dei mutamenti sociali che sconvolsero la zona posta a Sud di Milano tra gli anni '50 e '70, così la definisce: «La ligera […] negli anni Cinquanta, nel tumultuoso dopoguerra, nell'Italia stretta nei sacrifici della ricostruzione, fu più che altro un tentativo fatto nei quartieri popolari, operai e proletari, di sfuggire al destino che sembrava inevitabile della disciplina di fabbrica».16 Piccoli furti, contrabbando, ricettazione, queste le attività principali. Si trovano nelle osterie, nei bar, nelle taverne che sorgono numerose nei dintorni del porto. A destra della darsena e del porto la Kasba, a sinistra l'alzaia del Naviglio.

«Giulio Confalonieri, musicista, compositore e storico della musica, frequentò da vicino i cosiddetti barboni di Milano. Evidentemente, i personaggi dell'emarginazione milanese degli anni 1950 e '6o cantata da E. Jannacci ne avevano di cose da raccontare, anche ad un maestro. La “Flavia” che proprio nella Conca del Naviglio perse metà della sua casa di ringhiera sotto le bombe della R.A.F., i suoi fratelli straccivendoli allievi del “Cagnatt” (forse l'ultimo campione nell'arte degli 'strasciée')17, il Pierino, il Leonardi, l'Amleto, il Moro, “el Frigurifer” e tanti altri ancora furono gli amici che Confalonieri frequentò nella società “larga” compresa tra Porta Genova, Porta Ticinese, e il dedalo di viuzze che si spingevano verso via Torino, e poi ancora in su fino all'inizio di via Larga proprio dove un tempo sorgeva il vecchio Bottonuto, territtorio di malaffare e di case di tolleranza.18 Era un centro cittadino non ancora “normale” quello descritto dal Confalonieri; alle osterie, ai trani e alle bettole permeate da potenti odori a base di alcool e “trinciato nazionale” non si erano ancora  sostituite le attuali rassicuranti vetrine luccicanti in stile mittel-europeo».19



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                Panoramica del vecchio Bottonuto adiacente a via Largadove oggi sorge piazza Diaz



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Ingresso del Bottonuto da via Larga




























































L'immediato dopoguerra finisce, il boom economico scoppia. Nel solo 1961 Milano vede trasferirsi fra i suoi confini più di 81.000 persone. I quartieri popolari che già esistevano mutano il loro assetto e la loro geografia per ospitare le centinaia di migliaia di immigrati che provengono principalmente dal sud e dal Veneto, al punto da divenire irriconoscibili. Accanto alle case minime del periodo fascista sorgono gli immensi palazzoni popolari di Quarto Oggiaro, Comasina, Giambellino-Lorenteggio, Corvetto, che assumono l'aspetto che conosciamo ancor oggi. Veri e propri quartieri-dormitorio dove si verificano i sintomi normalmente connessi a questo tipo di fenomeni urbani, che non mancano di occupare le prime pagine dei giornali locali e, nei casi più vistosi, nazionali. Le coree si ingrandiscono. Io stesso vivo ad una cinquantina di metri da una zona residenziale di villette chiamata dagli abitanti del quartiere “villaggio Bovisasca”, che sorge dalle ceneri di un ex corea sottoproletaria.
Inizia la lotta delle classi popolari e meno abbienti, che non riescono a seguire il ritmo della neonata società del benessere, per restare all'interno della cerchia delle mura spagnole che delimitano il centro storico, in cui cominciano, lentamente, a sorgere i primi locali alla moda per il divertimento della nuova borghesia industriale, che ovviamente non vede di buon occhio la forte presenza operaia, popolare e sottoproletaria radicata nella zona. Nell'area del centro, sopratutto inizialmente in via Larga, sorgono i primi Night Club, i Pub, I locali notturni alla moda. La ligera, definibile fino ad allora come una vera e propria criminalità popolare e “romantica”, che si dedicava ai piccoli furti e al contrabbando con il solo scopo della sussistenza, inizia ad assumere i connotati di una vera e propria criminalità organizzata, che gestisce molti di questi locali e si dedica nel frattempo ad attività illecite di ben altra natura. Lo scopo è quello di arricchirsi e di fruire così dei benefici che la neonata società dei consumi fornisce alla classe benestante.20 È in questo momento che inizia a verificarsi quella mescolanza tra ceto popolare e ceto borghese, il quale comincia ad insediarsi anche nelle zone più “centrali” del Ticinese e di porta Genova. Parte lentamente il grande esodo dal centro verso le periferie operaie. Il porto, che fino ad allora era stato un crogiolo di incontri e di esperienze di vita vissuta, smette di ospitare i barconi e le attività ad esse connesse intorno al '71. Ognimodo una realtà popolare nella zona del Ticinese (allora comunque ancora considerato periferia rispetto al “centro storico” propriamente detto, quello delle mura spagnole, e che anzi fu uno dei quartieri “ospitanti” le masse popolari provenienti dalle aree centrali) continuerà a sopravvivere forte e radicata fino a tutti gli anni '70. Molte osterie restano in piedi, e un fenomeno nuovo invade questi quartieri: quello della contestazione studentesca. Una forte presenza comunista, legata al partito di allora, c'è sempre stata in queste zone, ma il fenomeno della contestazione giovanile riempie i viali della darsena di energia nuova. I bar e le osterie popolari si riempiono di studenti e giovani che si trovano per discutere, dibattere, studiare o semplicemente svagarsi e bere in compagnia. Qui studenti e operai si incontrano e si confrontano. Quel crogiolo di corpi e di esperienze contribuirà a dare vita ad uno dei movimenti politici più vivi ed energici della storia della nostra città e del nostro paese. Basta chiedere ad uno qualsiasi dei nostri genitori, che abbia frequentato quella zona anche solo un po', per farsi un idea del clima suggestivo e particolarissimo che doveva esserci all'epoca. È in quel periodo che viene occupato lo storico centro sociale Cox 18 in via Conchetta, che ospiterà nei decenni successivi la libreria Calusca di Primo Moroni, aperta tutt'oggi e inespugnabile fortezza ideologica e politica, oltre che prezioso fortino di testimonianze della Milano di quegli anni.21



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Panoramica della vecchia darsena

Così per tutti gli anni '70. Poi l'esplosione del '77, la grande sconfitta, il riflusso degli anni '80, la deindustrializzazione e il dissolvimento della cultura e della classe operaia. Questa è storia recente. Milano si avvia a diventare una metropoli-piattaforma internazionale basata sul terziario avanzato. Milano diventa la città della moda. Milano diventa la Milano da bere. La gentrificazione totale di quelle zone che fino ad allora si erano mantenuti popolari per diversi secoli (erano infatti quartieri artigiani e contadini già da prima della primissima industrializzazione, nelle poche case a ringhiera sopravvissute nel Ticinese si possono ancora vedere le cantine utilizzate per la produzione di formaggi) avviene nel giro di un batter d'occhio: i prezzi aumentano, il costo della vita diventa insostenibile; le masse operaie, proletarie e contadine si spostano. Il definitivo esodo delle classi meno abbienti nelle periferie più estreme trova completo compimento. Il Ticinese, con la sua darsena, e il quartiere di Porta Genova, nel giro di pochissimi anni diventano il fulcro della Milano da bere, molte vecchie osterie chiudono i battenti, altre si riconvertono in ristoranti alla moda. Sono passato di recente davanti all'osteria Briosca sulla darsena, frequentatissima da mia madre negli anni '70 e nei primissimi anni '80. Spesso mi ha raccontato delle esperienze vissute in quel posto, bazzicato da lei quasi quotidianamente. Per curiosità sono entrato a dare un occhiata, ma sono dovuto uscire subito. Sentivo una stretta al cuore solo comparando le storie di mia mamma con ciò che è diventato quel posto. Che c'è ancora da dire? Pochissimo è cambiato da allora. Ciò che è diventata quella zona, ormai patria, come detto, di fighetti e figli di papà, ce lo abbiamo tutti davanti agli occhi. Sembra che la ciliegina sulla torna, il definitivo compimento, il suggellamento della vittoria del consumo e del benessere nella città vetrina internazionale sia stata l'ultima ristrutturazione della darsena per EXPO. Ora la darsena del Naviglio di porta Ticinese, che fino a due anni fa era rimasta abbandonata a se stessa, con un vialuzzo d'erba che costeggiava l'acqua raggiungibile tramite stretti scalini e frequentato solo da qualche senzatetto, è diventata un largo e illuminato marciapiede di mattoncini rossi segmentato da pali della luce con cartelli della Vodafone posti ad intervallo regolare di 10-15 metri. La popolazione che passeggia su quei marciapiedi preferisco lasciarla all'immaginazione. I locali che ci si affacciano anche. Vi consiglio solo, se mai aveste voglia di andare a farvi un giro, di fare un buon prelievo in banca. Se poi doveste avere un attimo di straniamento in cui, per qualche secondo, pensiate di essere sul lungomare di Rimini passeggiando tra le lucine colorate state tranquilli, è assolutamente normale. Questo succede ad una città che non ha consapevolezza del suo passato, che non conosce la sua storia e quella delle strade e dei quartieri su cui cammina in fretta per andare al lavoro. Questo succede ad una metropoli internazionale che «con cieca avidità al denaro e al progresso ha sacrificato le tradizioni, i valori, la storia, il senso di appartenenza».22 Questo succede a dei milanesi che «“sono dei sordomuti”- e indicò con la mano spiegata la schiena dell'auriga, la coda del cavallo, il lastrico, la casa di fronte, la folla dei passanti- “i milanesi sono dei sordomuti. Non sanno chi fu il Belloveso. Belloveso fu il Romolo e Remo di Milano. Il gallo Belloveso, signore, che era nipote di un re dei Biturigi, quasi seicent'anni avanti Cristo varcò le Alpi e qui accampandosi fondò Milano, capitale morale d'Italia. E a Milano nessuno, nessuno, nessuno lo sa”».23



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La ricostruzione post-EXPO


Voglio, per concludere la breve storia, riportare l'intero commento di Francesco Erspamer, professore di lingue e letterature romanze all'università di Harvard, a proposito, per citare un altro avvenimento legato ad EXPO, della così definita “devastazione” del centro città il 1° maggio 2015 da parte dei No-expo durante l'inaugurazione della fiera, con relativa successiva attività di pulitura delle “spugne di mastrolindo”, simbolo della società benpensante meneghina tutta:

«I black-bloc non hanno lasciato nemmeno un graffio permanente sul volto di Milano. [...] Le oscene cicatrici che vediamo e non potranno essere cancellate le ha fatte la cieca avidità di un sistema che al denaro ha sacrificato le tradizioni, i valori, la storia, il senso di appartenenza e che fa finta di ricordarsene solo quando dei ragazzi senza passato e senza futuro si ribellano come possono, come sanno».24

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1  Commento di Dante Isella alla poesia Navilii di Delio Tessa: Delio Tessa, Altre Liriche (1999) a c. di Dante Isella, vol 2, Einaudi, 2013 p. 429.

2  D. Franchi, R. Chiumeo, Urbanistica a Milano in regime fascista, p. 58, La Nuova Italia, Firenze, 1972.

3  Per questa vicenda si veda Gianfranco Pugni, C’era una volta l’Albergo. La vicenda dell’Albergo Popolare, a cura del CRAAL Ospedale S. Paolo, Dicembre 2001, p. 86.

4  Inizio di un'antica filastrocca, di senso oscuro (la si veda nel Cherubini), con cui i ragazzi facevano la conta nel gioco del nascondino. Per Ara bell'Ara è invece data una spiegazione “mitologica” da Laura Maragnani e Franco Fava in Leggende e storie milanesi, Meravigli, 1984, pp. 145-147.

5  Per la poesia completa si veda Delio Tessa, Altre Liriche (1999) a c. di Dante Isella, vol 2, cit. pp. 429-435.

6  Gianfranco Pugni, C’era una volta l’Albergo. La vicenda dell’Albergo Popolare, cit. p. 13.

7  Le prime grandi trasformazioni urbanistiche risalgono alla seconda metà del secolo precedente, che fra l'altro vide la costruzione, conclusa nel 1876, della galleria Vittorio Emanuele II, ad opera dell'architetto Giuseppe Mengoni. Sotto questo punto di vista Milano fu , considerando il contesto italiano, una città molto “precoce”.

8  Dati riportati in ivi p. 13, a loro volta tratti dalle tabelle elaborate dal Dott. Michele Dean in Milano Città in Guerra, Feltrinelli, 1973, Milano.

9  Il quale costruì alcuni boulevard di Parigi a sua volta memore delle sollevazioni del 1831 e del '48 che si servivano dei quei vicoli labirintici, perfetti per barricate e sommosse, per mettere a ferro e fuoco la città.

10  Ivi p. 57.

11  Anche Villa Litta ad Affori venne parzialmente convertita in ricovero, insieme all'ex manicomio Senagra in corso XXII Marzo e alla zona di Corvetto di recente finita sotto i riflettori mediatici. In questo periodo nascono anche le prime case minime e il ricovero comunale a Quarto Oggiaro, quartiere che raggiungerà il suo massimo “splendore” durante la grande immigrazione del boom degli anni Sessanta di cui a breve. Il Giambellino invece vedrà le prime case minime costruite per ospitare gli esodati dopo il piano regolatore del '26 (suggellato poi da quello di Albertini del '34) che distruggerà il Bottonuto di via Larga e i quartieri adiacenti nei primi anni '30.

12  Ivi p. 92.

13  Dati tratti dal Pugni da R.A.F., Bomber Air Command, Rapporto attacco n. 107, 24 ottobre 1942, in Storia illustrata n. 267, febbraio 1980.

14   Si veda Franco Alasia e Danilo Montaldi, Milano Corea, inchiesta sugli immigrati negli anni del «Miracolo» (1959), Donzelli Editore, Roma, 2010 e Jhon Foot, Milano dopo il miracolo, biografia di una città, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 54.

15   Gianfranco Pugni, C'era una volta l'Albergo. La vicenda dell'Albergo Popolare, cit. p. 97.

16  Ca'Lusca, scritti e interventi di Primo Moroni, p. 19.

17  «Gli "Strascee" giravano con un carrettino spinto a mano ed i più importanti con un carro trainato dal cavallo. Ritiravano di tutto, stracci, ossa, anche rottami di ferro, ed in cambio davano aghi, ditali, cucirini, soda, lisciva, candeggina, sapone, mollette per stendere la biancheria,spazzole per lavare, pettini, etc. Una specie di baratto che aveva il doppio vantaggio di liberarsi di cose inutili e di avere in cambio cose che potevano servire. Erano anche molto astuti tanto da coinvolgere anche i bambini che si davano da fare per trovare cose da dar loro ed avere in cambio le biglie colorate di terracotta. L'urlo di battaglia degli "strascee" era: "Strascee donn! Conegrina e savon" (Straccivendolo donne! Candeggina e sapone) ma ne ricordo uno che diceva anche: "Donn, compree el battipann per i marì che tornen a cà ciocch!" (Donne, comperate il battipanni per i mariti che tornano a casa ubriachi)», http://www.agendamilano.com/AM2_Pagina.asp?IdPag=303

18  Case di tolleranza che verranno definitivamente chiuse dalla legge Merlin del '58.

19  Gianfranco Pugni, C'era una volta l'Albergo. La vicenda dell'Albergo Popolare, cit. p. 52.

20  Un interessante contributo sull'argomento è fornito dal documentario di Tonino Curagi e Anna Gorio Malamilano. Dalla liggera alla criminalità organizzata. Disponibile sul canale youtube: https://www.youtube.com/watch? v=10P2HTCad4U.

21  Ringrazio in particolare Totò della libreria Calusca per avermi fornito l'interessante libro di Gianfranco Pugni ampiamente citato in questo articolo.

22  Dal commento di Erspamer di cui sotto.

23  Massimo Bontempelli, La vita operosa, avventure del '19 a Milano (1921), Metropolis Edizioni Unicopli, Milano, 2013, pp. 92, 93.

24  http://www.lavocedinewyork.com/news/primo-piano/2015/05/02/milano-e-lexpo-a-ferro-e-fuoco-ovvero-la-propaganda-liberista-allattacco/