La questione dei tornelli con tutta la mobilitazione e l'attenzione
mediatica che ne è seguita ci ha lasciato tutti alquanto di stucco
,
a cominciare dagli stessi
attivisti che hanno visto scoppiare da questo
piccolo casus belli tutto il fermento e la partecipazione che
ne
sono seguiti.
E' piuttosto diffuso un
sottofondo di stupore, inespresso nel caso dei diretti animatori
della mobilitazione, e tutti si aspettano di dover rispondere da un
momento all'altro a un' ipotetica obiezione del tipo “ma cosa vuoi
che te ne freghi di due tornelli, con tutti i problemi che ci sono”.
In questo caso parrebbe
che il CUA, cogliendo l'occasione per tentare di far scoppiare
qualcosa (ché con la mobilitazione legata all'alto prezzo della
mensa non è andata troppo bene, e anche
qui sarebbe interessante ragionare sui motivi), abbia acceso la
miccia giusta.
Non molti tuttavia
sembrano rendersi lucidamente conto del perché.
Le
argomentazioni più diffuse sul libero accesso a tutti ai locali
dell'università, sulla necessità di trasversalità e di luoghi di
incontro e di scambio, sull'assurdità della repressione poliziesca,
pur essendo certamente pertinenti, non colgono completamente il
fulcro del problema.
Neanche Zerocalcare
sembra afferrare molto bene il punto nel suo
breve intervento a fumetti quando
parla di “ragionare insieme su cosa dovrebbe essere l'università”.
Manca,
in altre parole, una visione chiara e comprensiva di un processo in
corso di natura più ampia e diffusa, che viene percepito in modo
ancora confuso e riguarda gli spazi urbani e la loro conformazione.
Cercherò a breve di approfondire questo argomento.
Prevale, ognimodo,
una forma di semi-incredulità di fondo, inespressa e
sommersa dalla retorica antagonista (che
molti di noi continuano a reputare alquanto
stucchevole) che rischia di
appesantire un momento che potrebbe invece essere molto prolifico.
Hanno
preso parte alla mobilitazione tanti
ragazzi più o meno legati al mondo della politica, ma ce ne
sono anche tanti altri che fino ad ora non hanno avuto molto a che
fare con il “movimento” e con la militanza, e cominciano
a vedersi finalmente in assemblea le facce incredule e perplesse di
molti studenti “normali” che, con questa retorica, non hanno né
vogliono averci troppo a che fare.
D'altra parte,
questa latente incredulità è utilizzata molto bene,
appunto,
dall'altra parte, quella della propaganda ufficiale,
che minimizza
la questione dei tornelli e tenta di ridurre il tutto, citando
Marx, a una semplice “farsa”.
L'informazione mainstream
punta sulla delegittimazione, più che numerica, qualitativa “cosa
vuoi che siano due tornelli”, “è un pretesto come un altro per
fare casino”, “non sanno neanche loro cosa stanno
facendo”.
Il fatto è che, sotto un
certo punto di vista, è proprio così.
Quando ho saputo che
avrebbero installato i tornelli ho provato un senso di fastidio, ma
pensandoci non saprei davvero razionalizzare il perché. “Porca
puttana, sono appena arrivato e Bologna diventa già una merda, tra
centri commerciali a cielo aperto, bar, pub, discoteche ed esche
varie per studenti mi mettono pure i tornelli alla biblioteca di
Lettere”. Quanto ho visto la polizia, dall'alto di una balconata al
38, sgomberare i ragazzi dal chiostro di sotto la rabbia è poi
salita alle stelle.
Ricordo più o meno la
stessa sensazione quando, tornato a
Dublino dopo tre mesi passati in Scozia, ho scoperto che avevano
costruito uno studentato alla moda di fronte al block popolare dove
vivevo con un amico.
Vedere quegli
hipster
con i risvoltini alle caviglie passare
in continuazione davanti alle entrate del block cercando lo
studentato, coi grappoli di ragazzetti di strada che li guardavano
divertiti, mi faceva rabbia. Sapevo che di lì a poco sarebbe morto
qualcosa, un altro pezzo di vita reale di quella splendida città se
ne sarebbe andato. Asfaltato dalla gentrificazione e dalla
“riqualificazione” a misura di consumo, da giovani bohemien che
approdano a Dublino in cerca di avventure, suggestioni e vita vissuta
che loro stessi contribuiscono a distruggere.
Un muro, un tornello, uno
studentato per ricchi, un treno ad alta velocità te li trovi davanti
da un giorno all'altro, e non puoi farci proprio niente. Solo
rosicare. Non puoi urlare al muro, non puoi scontrartici, non puoi
dialogarci, non gli puoi sparare e non puoi metterlo sulla
ghigliottina e tagliargli la testa. Non è un nobile, non è un
politico, non è un padrone, non è un magnate, non è un poliziotto
e non è un agente dell'alta finanza. La tua rabbia resta impotente,
frustrata anche dal fatto che non riesci a capire esattamente con chi
te la devi prendere.
Ho poi
capito, pensandoci, che ciò che mi faceva così rabbia era in
realtà un processo.
Un processo diffuso che
potrebbe essere chiamato, in senso lato, di normalizzazione e
spettacolarizzazione. Normalizzazione degli spazi urbani, dei
rapporti, delle vite, delle relazioni tra individui, funzionali a una
spettacolarizzazione consumistica di tutto ciò che prima era reale,
realmente vissuto. Contro tutto questo c'è poco da sbraitare.
Sì, posso prendermela
con l'assessore all'urbanistica, con il sindaco, col rettore, col
questore, anche col magutto sporco di
malta che lo costruisce se non sono un tipo con
gli occhi di falco, ma intanto il muro resta e la
normalizzazione pure, e forse non si può neanche dire che siano
davvero loro i responsabili, almeno non in senso assoluto. E' il
processo generale il problema. Non ricordo dove ho letto che con un
muro non parli, o ci scrivi sopra o lo abbatti, ma mi sembra molto
vero.
Di fronte a questo
processo anonimo, fluido e penetrante di annullamento del reale e
delle contraddizioni che porta con sé, di fronte a questo panoptismo
che è diventato talmente difficile da scalfire da aprire
davvero la strada all'idea della disfatta (parossismo del panoptismo,
azzarderei, visto che non solo siamo tutti guardati, ma vogliamo
essere guardati, non desideriamo altro che essere guardati), di
fronte a tutto questo la rivolta non può che essere dionisiaca. Non
può che non sapere “neanche lei perché”. “Questo tornello che
mi sta sul cazzo” lo percepisco come parte di un meccanismo
generale di normalizzazione che mi sovradetermina, che mi è imposto,
che non posso controllare e verso il quale non ho alcun potere
decisionale né voce in capitolo. Io lo distruggo. Perché? Boh.
“Minchia frà, se non smonti un tornello sei un coglione!”. Tia
Sangermano teorico di riferimento per davvero. Embé? Tu mi hai per
caso giustificato per filo e per segno, seguendo un ferreo rigore
logico (lasciando stare le assurde motivazioni securitarie, comunque
fornite perlopiù a cose fatte) il perché da un giorno all'altro mi
è spuntato un tornello davanti al naso che condiziona materialmente
le mie modalità di fruizione di quello spazio? Perché io uso quello
spazio, non il rettore, non gli omini addetti al montaggio e
menchemeno i poliziotti che entrano a prendermi a manganellate e
sbattermi fuori. Nessuno lo ha fatto. Nessuno
mi ha chiesto niente. E io te lo smonto, te lo spacco e lo
butto nel cestino. E non ho nessun bisogno di giustificarmi.
Ecco perché tutte le
argomentazioni spese per giustificare e tentare di comprendere
razionalmente la natura del problema suonano tutto sommato
insoddisfacenti, quando non viziate da noiosa retorica antagonista.
Il punto non è l'università in sé, il tornello in sé, la
possibilità o meno di entrare in una biblioteca che dovrebbe restare
libera e pubblica. Il problema sono i nostri luoghi e come vengono
strutturati.
Viviamo in un mondo in cui il potere passa attraverso l'organizzazione degli spazi. Degli spazi urbani prima di tutto, luoghi della Storia per eccellenza, ormai metropoli-piattaforme internazionali sempre più slegate dal territorio secolare che le circonda e dalle sue istanze. Questo provoca isolamento, solipsismo, senso di impotenza e di frustrazione.
E la resistenza, l'opposizione a questo potere, non può fare altro che passare a sua volta, in modo quasi irrazionale, attraverso gli spazi.
Distruggere, aprire spiragli, squarci di vita vissuta per davvero, di relazioni vissute per davvero, di luoghi abitati pienamente. Fare sì che la gente si incontri, stia insieme, parli, comunichi, si confronti, riprovi o provi per la prima volta l'esperienza del collettivo, viva un'esperienza altra, da comparare e confrontare con l'individualismo narcisista in cui il nostro mondo ci ha cresciuti, in cui siamo tutti immersi. Sia mai che, comparando, l'esperienza altra superi in qualità quella ordinaria. Tutto ciò, anche se solo in parte, anche se in modo insignificante, il 36 e il suo chiostrino lo facevano. E forse è per questo che c'è stata questa reazione repressiva, tutta questa attenzione mediatica, tanto dibattito ma soprattutto una tale risposta da parte degli studenti. E forse è per questo che nessuno riesce a capire molto bene come tutto ciò sia avvenuto, come sia possibile che un palazzo occupato in cui vivono decine di famiglie che viene sgomberato susciti meno interesse da parte di non-militanti che una biblioteca di Lettere tornellata, se così si può dire. E' una questione di sensibilità collettiva.
Le nuove
dinamiche di
potere agiscono
sull'organizzazione dei luoghi, sull'isolamento e sulla
normalizzazione, creando nevrosi e solitudine, che a loro volta
creano malessere che si esprime perlopiù in modo irrazionale,
e irrazionale, di pancia, non può che essere la risposta.
Ora sta a noi
far passare dei messaggi, organizzarci insieme, far vivere a tutti
questi “nuovi venuti” l'esperienza della partecipazione, di
un'azione autentica e realmente sociale e collettiva.
Azzarderei che gli slogan
melensi, la retorica di movimento e gli “adelante companeros!”
potrebbero non giovare a questo proposito
,
e che sia più utile cercare di parlare
con tutti, far sentire ognuno a proprio agio, creare gruppi di
lavoro, utilizzare i momenti aggregativi per creare nuovi incontri,
nuove suggestioni e nuove esperienze, calarsi davvero nell'ambiente
che ci circonda senza aver paura di perdere la nostra identità, che
dovrebbe essere molto più forte, stabile e consapevole degli slogan,
dei cori e dei soliti discorsi stereotipati. Pena il rischio che
tutto ciò si perda nel nulla nel giro di poco tempo, una volta che
il problema dei tornelli sarà diventato acqua passata.
creek