martedì 13 marzo 2018

Capezzoli su Milano - il lavoro di matrice22

“la censura è sempre uno strumento politico, non è certo uno strumento intellettuale.
Strumento intellettuale è la critica”
(F. Fellini)


Si motiva proprio con la critica alla censura il gesto del collettivo di artisti anonimi “matrice22”, responsabile della comparsa di centinaia di fotografie 30x30 di capezzoli femminili affisse davanti ai seggi e lungo le strade delle principali zone della movida milanese (tra cui pta venezia, isola e navigli).
Le opere raffigurano i seni nudi di più di venti donne, di differenti etnie ed età.


Il gruppo matrice22 comunica principalmente attraverso Instagram, probabilmente il miglior palcoscenico per raggiungere un vasto pubblico attraverso le sole immagini, tracciando il proprio lavoro con l’hashtag #feelthenipple.

Sul social, hanno già accusato i colpi delle prime censure: è già stata chiusa loro una pagina e sono state segnalate diverse foto.

La censura sul web è una tematica silenziosa che si insinua nelle reti di numerosi paesi limitando l’accesso alle informazioni del mondo digitale.
Le più clamorose sono state le proibizioni del premier Erdogan in Turchia, come il blocco di twitter nel 2004 o quello di wikipedia dell’anno passato, ma secondo una stima del consorzio universitario Open Net Initiative1 sono almeno 74 i paesi in cui è limitato o proibito l’accesso ad alcuni angoli, talvolta non così remoti, del web.
Instagram, in particolare, applica una censura immediata rimuovendo automaticamente, ovvero anche senza segnalazione da parte degli utenti, i contenuti in cui compaiano scene di nudo e, in particolare, capezzoli femminili.




La libertà di espressione è garantita e regolamentata dall’articolo 21 della Costituzione, che sancisce il diritto a “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, e che allo stesso tempo vieta tutte le manifestazioni “contrarie al buon costume”.
Che, agli albori del ventunesimo secolo, ancora il corpo di donna venga considerato “contrario al buon costume” è una spiacevole evidenza di cui siamo tenuti a prendere atto.
Persino il mondo dell’arte non si è più di molto evoluto dalle antiche metodologie di censura, ed ecco che compaiono occultate le intimità dipinte da Schiele nei manifesti pubblicitari per le strade di Londra e nel liceo artistico Brera di Milano viene “vestita”, su richiesta della preside, la Venere dipinta dal colletivo del liceo prima di essere esposta.

Matrice22 imbraccia le fotografie ed organizza una resistenza all’espansione della pudicizia vacua del perbenismo di facciata.

È un gesto provocatorio quello degli artisti responsabili, volto evidenziare il proibizionismo ancora forte per quanto concerne il corpo femminile.
Hanno scelto come linguaggio del loro grido le immagini, fonte principale della comunicazione mediatica attuale, compiendo un gesto forte e facilmente traducibile.
Alcune di queste fotografie sono state strappate ad opera di ignoti, ma su internet il lavoro di matrice22 sta riscontrando un certo sostegno, inserendosi inoltre in un discorso più ampio riguardo alle attuali lotte in favore dei diritti delle donne e delle pari opportunità.



1 https://opennet.net
MATRICE22: https://www.instagram.com/matrice22.2/

lunedì 27 febbraio 2017

L'importanza del tornello



La questione dei tornelli con tutta la mobilitazione e l'attenzione mediatica che ne è seguita ci ha lasciato tutti alquanto di stucco, a cominciare dagli stessi attivisti che hanno visto scoppiare da questo piccolo casus belli tutto il fermento e la partecipazione che ne sono seguiti.
E' piuttosto diffuso un sottofondo di stupore, inespresso nel caso dei diretti animatori della mobilitazione, e tutti si aspettano di dover rispondere da un momento all'altro a un' ipotetica obiezione del tipo “ma cosa vuoi che te ne freghi di due tornelli, con tutti i problemi che ci sono”.
In questo caso parrebbe che il CUA, cogliendo l'occasione per tentare di far scoppiare qualcosa (ché con la mobilitazione legata all'alto prezzo della mensa non è andata troppo bene, e anche qui sarebbe interessante ragionare sui motivi), abbia acceso la miccia giusta.
Non molti tuttavia sembrano rendersi lucidamente conto del perché.
Le argomentazioni più diffuse sul libero accesso a tutti ai locali dell'università, sulla necessità di trasversalità e di luoghi di incontro e di scambio, sull'assurdità della repressione poliziesca, pur essendo certamente pertinenti, non colgono completamente il fulcro del problema.
Neanche Zerocalcare sembra afferrare molto bene il punto nel suo breve intervento a fumetti quando parla di “ragionare insieme su cosa dovrebbe essere l'università”.
Manca, in altre parole, una visione chiara e comprensiva di un processo in corso di natura più ampia e diffusa, che viene percepito in modo ancora confuso e riguarda gli spazi urbani e la loro conformazione. Cercherò a breve di approfondire questo argomento.
Prevale, ognimodo, una forma di semi-incredulità di fondo, inespressa e sommersa dalla retorica antagonista (che molti di noi continuano a reputare alquanto stucchevole) che rischia di appesantire un momento che potrebbe invece essere molto prolifico.
Hanno preso parte alla mobilitazione tanti ragazzi più o meno legati al mondo della politica, ma ce ne sono anche tanti altri che fino ad ora non hanno avuto molto a che fare con il “movimento” e con la militanza, e cominciano a vedersi finalmente in assemblea le facce incredule e perplesse di molti studenti “normali” che, con questa retorica, non hanno né vogliono averci troppo a che fare.
D'altra parte, questa latente incredulità è utilizzata molto bene, appunto, dall'altra parte, quella della propaganda ufficiale, che minimizza la questione dei tornelli e tenta di ridurre il tutto, citando Marx, a una semplice “farsa”.
L'informazione mainstream punta sulla delegittimazione, più che numerica, qualitativa “cosa vuoi che siano due tornelli”, “è un pretesto come un altro per fare casino”, “non sanno neanche loro cosa stanno facendo”.
Il fatto è che, sotto un certo punto di vista, è proprio così.

Quando ho saputo che avrebbero installato i tornelli ho provato un senso di fastidio, ma pensandoci non saprei davvero razionalizzare il perché. “Porca puttana, sono appena arrivato e Bologna diventa già una merda, tra centri commerciali a cielo aperto, bar, pub, discoteche ed esche varie per studenti mi mettono pure i tornelli alla biblioteca di Lettere”. Quanto ho visto la polizia, dall'alto di una balconata al 38, sgomberare i ragazzi dal chiostro di sotto la rabbia è poi salita alle stelle.
Ricordo più o meno la stessa sensazione quando, tornato a Dublino dopo tre mesi passati in Scozia, ho scoperto che avevano costruito uno studentato alla moda di fronte al block popolare dove vivevo con un amico.
Vedere quegli hipster con i risvoltini alle caviglie passare in continuazione davanti alle entrate del block cercando lo studentato, coi grappoli di ragazzetti di strada che li guardavano divertiti, mi faceva rabbia. Sapevo che di lì a poco sarebbe morto qualcosa, un altro pezzo di vita reale di quella splendida città se ne sarebbe andato. Asfaltato dalla gentrificazione e dalla “riqualificazione” a misura di consumo, da giovani bohemien che approdano a Dublino in cerca di avventure, suggestioni e vita vissuta che loro stessi contribuiscono a distruggere.
Un muro, un tornello, uno studentato per ricchi, un treno ad alta velocità te li trovi davanti da un giorno all'altro, e non puoi farci proprio niente. Solo rosicare. Non puoi urlare al muro, non puoi scontrartici, non puoi dialogarci, non gli puoi sparare e non puoi metterlo sulla ghigliottina e tagliargli la testa. Non è un nobile, non è un politico, non è un padrone, non è un magnate, non è un poliziotto e non è un agente dell'alta finanza. La tua rabbia resta impotente, frustrata anche dal fatto che non riesci a capire esattamente con chi te la devi prendere.
Ho poi capito, pensandoci, che ciò che mi faceva così rabbia era in realtà un processo.
Un processo diffuso che potrebbe essere chiamato, in senso lato, di normalizzazione e spettacolarizzazione. Normalizzazione degli spazi urbani, dei rapporti, delle vite, delle relazioni tra individui, funzionali a una spettacolarizzazione consumistica di tutto ciò che prima era reale, realmente vissuto. Contro tutto questo c'è poco da sbraitare.
Sì, posso prendermela con l'assessore all'urbanistica, con il sindaco, col rettore, col questore, anche col magutto sporco di malta che lo costruisce se non sono un tipo con gli occhi di falco, ma intanto il muro resta e la normalizzazione pure, e forse non si può neanche dire che siano davvero loro i responsabili, almeno non in senso assoluto. E' il processo generale il problema. Non ricordo dove ho letto che con un muro non parli, o ci scrivi sopra o lo abbatti, ma mi sembra molto vero.
Di fronte a questo processo anonimo, fluido e penetrante di annullamento del reale e delle contraddizioni che porta con sé, di fronte a questo panoptismo che è diventato talmente difficile da scalfire da aprire davvero la strada all'idea della disfatta (parossismo del panoptismo, azzarderei, visto che non solo siamo tutti guardati, ma vogliamo essere guardati, non desideriamo altro che essere guardati), di fronte a tutto questo la rivolta non può che essere dionisiaca. Non può che non sapere “neanche lei perché”. “Questo tornello che mi sta sul cazzo” lo percepisco come parte di un meccanismo generale di normalizzazione che mi sovradetermina, che mi è imposto, che non posso controllare e verso il quale non ho alcun potere decisionale né voce in capitolo. Io lo distruggo. Perché? Boh. “Minchia frà, se non smonti un tornello sei un coglione!”. Tia Sangermano teorico di riferimento per davvero. Embé? Tu mi hai per caso giustificato per filo e per segno, seguendo un ferreo rigore logico (lasciando stare le assurde motivazioni securitarie, comunque fornite perlopiù a cose fatte) il perché da un giorno all'altro mi è spuntato un tornello davanti al naso che condiziona materialmente le mie modalità di fruizione di quello spazio? Perché io uso quello spazio, non il rettore, non gli omini addetti al montaggio e menchemeno i poliziotti che entrano a prendermi a manganellate e sbattermi fuori. Nessuno lo ha fatto. Nessuno mi ha chiesto niente. E io te lo smonto, te lo spacco e lo butto nel cestino. E non ho nessun bisogno di giustificarmi.
Ecco perché tutte le argomentazioni spese per giustificare e tentare di comprendere razionalmente la natura del problema suonano tutto sommato insoddisfacenti, quando non viziate da noiosa retorica antagonista. Il punto non è l'università in sé, il tornello in sé, la possibilità o meno di entrare in una biblioteca che dovrebbe restare libera e pubblica. Il problema sono i nostri luoghi e come vengono strutturati.
Viviamo in un mondo in cui il potere passa attraverso l'organizzazione degli spazi. Degli spazi urbani prima di tutto, luoghi della Storia per eccellenza, ormai metropoli-piattaforme internazionali sempre più slegate dal territorio secolare che le circonda e dalle sue istanze. Questo provoca isolamento, solipsismo, senso di impotenza e di frustrazione.
E la resistenza, l'opposizione a questo potere, non può fare altro che passare a sua volta, in modo quasi irrazionale, attraverso gli spazi.
Distruggere, aprire spiragli, squarci di vita vissuta per davvero, di relazioni vissute per davvero, di luoghi abitati pienamente. Fare sì che la gente si incontri, stia insieme, parli, comunichi, si confronti, riprovi o provi per la prima volta l'esperienza del collettivo, viva un'esperienza altra, da comparare e confrontare con l'individualismo narcisista in cui il nostro mondo ci ha cresciuti, in cui siamo tutti immersi. Sia mai che, comparando, l'esperienza altra superi in qualità quella ordinaria. Tutto ciò, anche se solo in parte, anche se in modo insignificante, il 36 e il suo chiostrino lo facevano. E forse è per questo che c'è stata questa reazione repressiva, tutta questa attenzione mediatica, tanto dibattito ma soprattutto una tale risposta da parte degli studenti. E forse è per questo che nessuno riesce a capire molto bene come tutto ciò sia avvenuto, come sia possibile che un palazzo occupato in cui vivono decine di famiglie che viene sgomberato susciti meno interesse da parte di non-militanti che una biblioteca di Lettere tornellata, se così si può dire. E' una questione di sensibilità collettiva.
Le nuove dinamiche di potere agiscono sull'organizzazione dei luoghi, sull'isolamento e sulla normalizzazione, creando nevrosi e solitudine, che a loro volta creano malessere che si esprime perlopiù in modo irrazionale, e irrazionale, di pancia, non può che essere la risposta.
Ora sta a noi far passare dei messaggi, organizzarci insieme, far vivere a tutti questi “nuovi venuti” l'esperienza della partecipazione, di un'azione autentica e realmente sociale e collettiva.

Azzarderei che gli slogan melensi, la retorica di movimento e gli “adelante companeros!” potrebbero non giovare a questo proposito, e che sia più utile cercare di parlare con tutti, far sentire ognuno a proprio agio, creare gruppi di lavoro, utilizzare i momenti aggregativi per creare nuovi incontri, nuove suggestioni e nuove esperienze, calarsi davvero nell'ambiente che ci circonda senza aver paura di perdere la nostra identità, che dovrebbe essere molto più forte, stabile e consapevole degli slogan, dei cori e dei soliti discorsi stereotipati. Pena il rischio che tutto ciò si perda nel nulla nel giro di poco tempo, una volta che il problema dei tornelli sarà diventato acqua passata.  

creek





venerdì 10 febbraio 2017

La quiete che tutti amano


L’Universitá Statale di Milano é un posto tranquillo, da molto tempo, e agli studenti piace cosí. È un posto pieno di aule e biblioteche dove seguire lezioni, studiare e dare esami. La creativitá studentesca vi si esprime normalmente attraverso una radio di ateneo, qualche giornale e un modesto consumo di cannabis e derivati.
Quando questa quiete viene interrotta i suoi guardiani – questore, sindaco, presidente della provincia, comandanti delle forze dell’ordine e rettore: il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica – si adoperano per restaurarla il piú rapidamente possibile. Il modo in cui il Comitato agisce illustra molto bene da dove venga questa pace e cosa significhi: ogni volta che gli studenti si organizzano in modi non previsti dal regolamento vengono inviate una decina di camionette di polizia e carabinieri in assetto antisommossa, a presidiare il posto. A volte si limitano a stare fermi davanti agli ingressi; altre volte entrano, come quando caricarono degli studenti che avevano occupato un’aula; altre volte blindano i cancelli e l’universitá rimane chiusa, vuota e tranquilla. Alla maggior parte degli studenti dispiace che la calma e il silenzio siano interrotti per qualche ora o qualche giorno dalle grida e dal rumore degli anfibi sul marciapiede, e dispiace molto non poter seguire le lezioni e dare esami: ma è un prezzo che pagano in fondo volentieri, perché sanno che è grazie a quelle camionette che possono godersi tutto l’anno la quiete che gli piace tanto.
Alcuni studenti hanno organizzato per lunedí 13 febbraio un incontro pubblico con un dottorato dell’Universitá di Torino che ha attraversato Palestina, Libano e Iraq per poi arrivare in Siria, dove ha partecipato alla rivoluzione del Rojava, nel nord-ovest del Paese, il Kurdistan siriano. Lí gli abitanti stanno costruendo una societá multietnica basata sulla giustizia sociale ed economica, opponendosi al settarismo dei jihadisti e all’autoritarismo dei governi siriano e turco. Durante il suo viaggio (tra febbraio e agosto 2016) Davide Grasso ha documentato e analizzato la situazione politica e le ragioni della guerra, esponendosi come testimone in zone ad alto rischio, e in Rojava ha deciso di prendere le armi insieme alle YPG (Unitá di Protezione del Popolo), una forza armata autonoma, per combattere contro lo stato islamico.
Davide Grasso ha rischiato la vita per
proteggere un esperimento di democrazia, mostrando che agire è possibile al di fuori dei telegiornali in cui intellettuali e politici parlano di scontro di civiltá. Ha mostrato che coraggio e generositá non sono parole, facendo una scelta che pochissimi di noi sanno fare. Per dare al maggior numero di persone l’opportunitá di confrontarsi con una fonte diretta e competente su degli eventi di tanta importanza per le nostre vite alcuni studenti hanno pensato di chiamarlo a parlare in un’aula della Statale, e hanno inoltrato richiesta all’amministrazione di ateneo.
Piergiuseppe Dilda, capo dell’Ufficio Rapporti con gli Organi di Governo e Attività Istituzionali, non crede che questo incontro sia un’opportunitá: “la partecipazione di un combattente all’incontro in questione è fonte di elevato rischio per la comunitá universitaria”, scrive in risposta alla domanda di concessione spazi. Forse immagina che Davide si presenterá in tenuta mimetica armato fino ai denti. Forse teme che spunti un jihadista dallo sgabuzzino, venuto apposta a combattere l’antico nemico. O forse è stato consigliato da quegli Organi di Governo con cui tiene i Rapporti e che, si puó pensare, gli danno consigli su come gestire le Attivitá Istituzionali. Forse c’entra qualcosa il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica: il rettore, il sindaco e i capi della polizia, che giá due anni fa (16-18 gennaio 2015) avevano collaborato per chiudere l’universitá senza preavviso per tre giorni per impedire un’assemblea pubblica su Expo. Oggi come allora forse si vuole evitare che la vita reale entri tra quelle mura, dove la conoscenza si misura in voti e dove (stando agli esperti) “troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente” (Gruppo di Firenze, 4 febbraio 2017).
Allora molti studenti si indignarono contro quei facinorosi che volevano usare l’universitá per fare altro che studiare e dare esami, costringendo l’incolpevole rettore a chiedere l’invio di quindici camionette di polizia per vegliare sui cancelli sbarrati. Molti studenti e studentesse videro la polizia come un amico che proteggeva le loro aule dal chiasso e dalle scritte sui muri: in fondo una giornata persa vale bene un po’ quiete e pulizia.
L’incontro (che ha quasi 700 tra interessati e partecipanti sulla pagina dell’evento in facebook) si terrá lo stesso come previsto: lo dicono gli studenti della pagina fb “Assemblea della Statale” e lo conferma Davide dalla sua, dicendo che è importante “mettere in chiaro che deve restare possibile raccontare pubblicamente ciò che accade in Siria”. Non si sa come reagirá il rettore e con quali criteri, e nemmeno come reagiranno gli studenti. Forse continueranno a pensare che la cosa non li riguarda, oppure che è interessante ma purtroppo devono seguire il programma di studi – magari sottolineando righe che elogiano la disobbedienza civile e il pensiero critico. Forse decideranno che dopotutto esistono sale conferenza e teatri per queste cose, e che chi vuole parlare di certe cose per forza in universitá è solo un arrogante che impone il proprio punto di vista agli altri – probabilmente la stessa gente che fa le scritte sui muri e alza la voce.
Esiste la possibilitá che gli studenti decidano che uno dei piú avanzati esperimenti politici e sociali esistenti al mondo meriti lo stesso rispetto e la stessa attenzione, almeno per un pomeriggio, dei corsi tenuti dai professori: e che vogliano parlare e discutere tra loro e con Davide di queste cose, e della libertá e del suo non essere solo una parola. È possibile che facciano questo, anche se volesse dire andare contro il regolamento e rompere la quiete. Ma per sapere se succederá bisogna aspettare lunedí.

b.



La pagina fb dell’incontro è Incontro pubblico con Davide Grasso combattente delle YPG, https://www.facebook.com/events/1633047570043988/
Davide Grasso tiene un blog in cui ha raccontato la sua esperienza e in cui analizza la situazione politica europea: quieteotempesta.blogspot.com
Sabato 11 ci sará una manifestazione a Milano in sostegno alla resistenza kurda e al suo comandante Abdullah Ocalan, in carcere da 19 anni, con partenza alle 14 da Palestro: evento fb Corteo nazionale a Milano per la libertá di Öcalan, https://www.facebook.com/events/202055620262710/