«La
fossa che circondava le mura della città antica fu modificata ed
ampliata sotto Ludovico il Moro (1496; la tradizione vuole per opera
ingegneresca di Leonardo), in modo da introdurvi le acque del
Naviglio. L'anello, di circa cinque chilometri, fu detto «Naviglio
interno». Il tratto che passava davanti all'Ospedale Maggiore (oggi
via Francesco Sforza) era comunemente chiamato «il Naviglio
dell'Ospedale». Se ne può avere un'immagine particolareggiata da un
disegno del Migliara (riprodotto nella Storia di Milano, XVI, p. 831)
e da un quadro di anonimo, pure verso la metà dell'Ottocento, del
Museo di Milano (ibid., p. 28).
“Tombon
de San March”: cosí si era soliti “chiamare, con una metonimia
popolare, lo slargo del Naviglio nei pressi della chiesa di San Marco
(...) Ragazze tradite e uomini disperati venivano, fino a pochi anni
fa, ad annegar nell'acqua torpida del Tombone le pene dell'amore e
quelle della miseria” (Bacchelli, art. cit.)».
Dante Isella.1
Nel
1928, o se si vuole a partire dal VI anno dell’Era Fascista, un
certo Albertini, ingegnere capo dell’ufficio urbanistico del comune
di Milano, dichiara con un comunicato ufficiale: «il Naviglio è un
pericolo sociale per l’attrazione che esercita sui deboli e sui
vinti di una grande metropoli, i suicidi; è un pericolo pubblico
nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono
precipitare. Del resto nella nuova vita italiana voluta dal Fascismo,
le ragioni di affermazione e miglioramento della razza debbono avere
il sopravvento sopra ogni altra considerazione. La vita delle nostre
grandi città è tutta pervasa da uno spirito nuovo di realizzazione
e di potenza…».2 Con questo “decreto”, che prometteva «miracoli viabilistici»,3 viene dato avvio al piano urbanistico che porterà all’interramento
di tutto il naviglio interno, che delimitava il perimetro della
Milano dell’età comunale.
L’anno
successivo un grande poeta milanese, molto legato alla città e alla
sua geografia, scrive una poesia in dialetto dal titolo Navilii.
Delio Tessa, questo è il suo nome, mette in scena un dialogo tra
l’acqua e il Naviglio nel tratto che passava davanti all’ospedale
Maggiore, in via Larga, oggi Università degli Studi di Milano: il
Naviglio parla con la sua acqua, che viene «dai brugher de Tesin
dove se cobbiom», dalle brughiere del Ticino dove ci congiungiamo,
fra la rurale Turbigo e Boffalora, su a nord. Viene svegliato dalla
sirena delle ambulanze che entrano all’ospedale, non riesce a
dormire, durante le poche ore di vita che gli rimangono intrattiene
l’ ultima conversazione con la sua vecchia amica che scorre fra i
sui argini. Stanno venendo a interrarlo, il piano urbanistico ha
preso avvio. Ricorda quindi i vecchi tempi, il «tombon de San
March», il Tombone di san Marco, pozzo d’acqua profonda in cui si
gettavano i suicidi, il caffé Birra Italia, i «temp
d'Ara-Bell'Ara!», in cui Berta filava.4 L’acqua lo esorta a dormire. Quante ne abbiamo viste vecchia amica
mia… ma in fondo hai ragione, è meglio dormire… ecco che l'è
rivaa la ruspa… mi vengono a interrare, e allora dormiamo, vecchia
mia, meglio così, perché «In sto mond
birba,
pien de travaij, l'unech remedi l'è de dormì», in questo mondo
furfante, pieno di affanni, l’unico rimedio è dormire.5
Il Tombon de San Marc, il pozzo d'acqua profonda dove si gettavano i suicidi |
Suicida si lancia nel Tombon de San Marc, disegno originale di Roxy |
Più di trent’anni dopo, nel 1960, un altro poeta meneghino, Elio Pagliarani, narra una storia allora molto comune, molto meno comune come materia narrativa di poeti e scrittori: si tratta della storia di «Carla Dondi […]/ Ambrogio di anni/ diciassette primo impiego stenodattilo/ all’ombra del Duomo». La storia, La ragazza Carla, è ambientata dodici anni prima, nel 1948, e narra della parabola formativa di una ragazza di origini contadine nella metropoli, uno degli innumerevoli casi di immigrazione a scopi lavorativi di una famiglia di campagna nella grande periferia operaia di Milano. Perché sì, via Ripamonti, oggi pieno centro, meta di profumati bevitori di cocktail del sabato sera, allora era periferia estrema:
Di là dal ponte della ferrovia una
traversa di viale Ripamonti
c'è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e
Nerina. Il ponte sta lì buono e sotto passano
treni carri vagoni frenatori e mandrie di macelli
e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che
cammina i camion della frutta di Romagna.
traversa di viale Ripamonti
c'è la casa di Carla, di sua madre, e di Angelo e
Nerina. Il ponte sta lì buono e sotto passano
treni carri vagoni frenatori e mandrie di macelli
e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che
cammina i camion della frutta di Romagna.
Milano
è stata una delle tre città, insieme a Torino e Genova, in un paese
ancora profondamente rurale, a sentire le scosse urbanistiche,
sociali ed economiche della rivoluzione industriale europea di fine
‘800. Il periodo appunto della Belle
Epoque
milanese, quello immediatamente precedente la grande guerra, tra il
1903-04 e il 1912-13 , quello che ha visto la buona borghesia
meneghina, grazie al proliferare delle industrie e del commercio,
darsi all’opulenza e alla vita mondana. Lo stesso che ha anche
visto masse di contadini fino allora mai conosciute rispondere all’
«irresistibile
richiamo che il mondo cittadino esercitava sulle campagne»:6 in quel periodo il tasso di immigrazione ha iniziato a viaggiare
intorno alle 10.000 unità annue. Fu in quel momento che ci furono le
prime avvisaglie del cambiamento in atto, in cui, un' altra volta7,
e forse in modo ancor più determinante, si verificarono a Milano
alcuni dei fenomeni tipici dell’urbanizzazione di massa:
l’espulsione del ceto popolare e artigiano dal centro urbano per
far posto ad uffici amministrativi e banche, la formazione di enormi
quartieri dormitorio operai malserviti e inospitali. Questi quartieri
popolari-tipo erano allora (suona strano ma è così) luoghi come il
Ticinese, Porta Genova, via Ripamonti. Questo è il motivo per cui un
autore di simpatie democratiche e popolari come Delio Tessa scelse
per i suoi componimenti di adoperare il dialetto, lingua del ceto
artigiano medio-basso che veniva espulso dal centro storico di allora
durante il primo grande esodo verso l'esterno.
Tutto
ciò, se si esclude il prevedibile periodo di riflusso della Grande
Guerra, non fece che aumentare negli anni successivi: nel 1907 gli
immigrati registrati arrivarono a 20.000, nel 1913 a 29.000, fino ad
arrivare nel 1927 al record di di 46.000 immigrati in un anno.8 Neanche il ventennio fascista, che fece motivo di propaganda
l’esaltazione della vita rurale del buon contadino italiano, fermò
questa tendenza, che
si mantenne stabile durante tutto il periodo. Solo la guerra e
l’immediato dopoguerra rappresentarono un freno. Durante questo
periodo infatti si registra un forte calo dell’immigrazione a
Milano, e in certi momenti il flusso risulta invertito.
La
zona della darsena di piazza 24 Maggio e di porta Genova era
fortemente popolare. In questo periodo nascono le prime osterie, le
taverne operaie dove i lavoratori e gli abitanti del quartiere
mangiano, bevono e riescono a trovare qualche momento di socialità e
svago, osterie sopravvissute pressappoco per tutti gli anni '70, che
hanno contribuito a costruire quell’immaginario così
caratteristico che ci è stato tramandato. Proliferano anche le case
chiuse e il fenomeno della prostituzione, e, ovviamente, la
criminalità. Bambini di strada che si dedicano a furti e rapine,
scassinatori, contrabbandieri di refurtiva e sigarette. Tutto ciò
era favorito dall’esistenza del porto, il fluviale più grande
d'Italia, luogo del contrabbando, dove le navi che scendevano il
naviglio dal Ticino cariche di materie prime favorivano, nel tumulto
delle attività portuali, lo sviluppo del commercio illegale.
Il porto della darsena negli anni '50
|
Non
così diversa, dice il Pugni, la Milano dei primi decenni del '900 da
quella Parigi narrata mezzo secolo prima da Hugo. Con i suoi
affittacamere profittatori, con la sua via della Conca e il Bottunuto
di via Larga, che faceva storcere il naso alla Milano bene abitante
lì a due passi, poi distrutto nei primi anni '30 dopo il piano
regolatore del '26, e tutte le altre zone di malaffare in cui mio
nonno ricorda come sua mamma gli sconsigliasse premurosamente di
andare a giocare da bambino, con le loro prostitute, i loro ladri e i
loro straccioni.
Questa
la darsena dei primi due decenni del '900. Poi il piano Albertini del
1934. Cosa fece il piano Albertini? Innanzitutto sotterrò buona
parte dei navigli interni, ma, oltre a questo, diede avvio ad un
progetto urbanistico che portò all'abbattimento dei quartieri
popolari del centro storico situati attorno a piazza Duomo,
ridimensionò il quartiere operaio dell'Isola per far spazio agli
ammodernamenti ferroviari della stazione di porta Garibaldi, avviò i
lavori di costruzione della nuova stazione Centrale. Memore inoltre
delle 5 giornate, del biennio rosso del 1919 e '20 e del lavoro che
fece a Parigi il collega urbanista Barone Haussman,9 il nostro Albertini sventrò e demolì edifici e giardini della
Milano storica nelle zone di via Torino, San Babila e via Larga, per
creare quei gran viali milanesi che conosciamo tanto bene in luogo di
quei viottoli intricati tanto adatti per le barricate. È il primo
passo di un processo che troverà definitivo compimento con la
ricostruzione postbellica e che porterà il volto di Milano a
divenire totalmente irriconoscibile.
L'effetto
principale del piano regolatore fu il significativo ingrossarsi, in
quegli anni, delle fila dei milanesi rimasti senza casa. «Una
milizia che non poteva permettersi di pagare le pigioni del liberismo
economico auspicato dalla borghesia che dopo il 1922 premeva per le
soluzioni “finali”. Nel breve lasso di tempo a cavallo tra le due
guerre mondiali i piani regolatori e gli interessi “forti”, pur
curando a loro modo l'estetica del centro cittadino, gettarono le
basi di quella struttura urbana milanese che oggi ben conosciamo. Per
far fronte al problema dei senza tetto, si pensò di “periferizzare”
questa scomoda popolazione nei territori dei comuni della cinta
cittadina che furono accorpati a partire dal 1923».10 La zona del Ticinese e di porta Genova contribuì a ospitare questa
tipologia di persone. Nascono le “case minime” per sfrattati in
cui si ammassano le migliaia e migliaia di famiglie milanesi rimaste
senza casa.11
Penserà
la guerra a concludere ciò che Albertini aveva iniziato.
Milano
è la città in assoluto più devastata d'Italia, il termine “rasa
al suolo”, almeno per quanto riguarda la cerchia dei bastioni, in
questo caso va preso alla lettera: «nel solo periodo dei
bombardamenti dell'agosto del 1943 andarono completamente persi 1500
edifici, 11.00o furono lesionati irreparabilmente, altri 15.000
furono danneggiati. Tenendo conto che in totale la città contava
all'epoca 40.000 fabbricati ad uso civile, non è difficile farsi un
idea».12
Due
bombardamenti in particolare furono devastanti per la zona del
Ticinese e di Porta Genova. Il primo fu il 24 ottobre 1942: una
settantina di bombardieri Lancaster inglesi della R.A.F. scaricarono
135 tonnellate di bombe uccidendo 171 persone; il secondo ebbe luogo
il 14 febbraio 1943 con più di 120 aerei della R.A.F., l'attacco
causò la distruzione di quasi 1000 case, 27 industrie e la morte di
459 civili innocenti.13
I
campi profughi di lamiera, senza luce né acqua, per le migliaia di
famiglie rimaste senza casa sopravviveranno lungo la circonvallazione
e nelle periferie fino alla metà degli anni '60. E' la nascita delle
cosiddette coree,
che verranno ingrossate dalle fila dell'immigrazione lavorativa degli
anni successivi; assolutamente prive di servizi, delle vere e proprie
baraccopoli, l'equivalente meneghino delle borgate
romane, solo meno istituzionalizzate.14
La
ricostruzione postbellica ci regalerà quei capolavori quadrati di
razionalismo anni '50 che non mancano mai di rifocillarci la vista
ogni volta che usciamo in qualche vialone dalla metropolitana.
Durante
gli anni della ricostruzione inizia anche, più rallentata negli anni
'50 ma già presente, l'esplosione dell'immigrazione di massa legata
al boom
economico di cui Milano sarà il motore principale dell'intera
penisola, e la zona del Ticinese e di porta Genova vedrà la
costruzione di immensi casermoni popolari per rispondere al
sovraffollamento della popolazione. Ecco la storia de La
ragazza
Carla
di
Pagliarani e quella di migliaia di altri giovani immigrati di origini
contadine che vennero a
Milano
in cerca di fortuna. E fu così che, sempre in quella zona che oggi è
una delle mete predilette di quella gioventù patinata e rampante,
«nell'incertezza che regnava in una Conca del Naviglio abbandonata a
se stessa, tra i muri sbrecciati frammischiati alle impalcature
lignee piantate a sorreggere improbabili cartelloni pubblicitari,
posti per tamponare i vuoti delle distruzioni dell'ultima guerra, si
intensificarono le attività tipiche degli anfratti cittadini
scarsamente illuminati. Fu per questo motivo che la zona compresa tra
il Ticinese e Porta Genova assunse ben presto nelle cronache una
denominazione alquanto esotica: la
Kasba».15 E nella Kasba
c'è il «tradizionale motore umano di questo agglomerato di
attività», la ligera,
la mala milanese. Primo Moroni, libraio in Ticinese e testimone
attivo dei mutamenti sociali che sconvolsero la zona posta a Sud di
Milano tra gli anni '50 e '70, così la definisce: «La ligera
[…] negli anni Cinquanta, nel tumultuoso dopoguerra, nell'Italia
stretta nei sacrifici della ricostruzione, fu più che altro un
tentativo fatto nei quartieri popolari, operai e proletari, di
sfuggire al destino che sembrava inevitabile della disciplina di
fabbrica».16 Piccoli furti, contrabbando, ricettazione, queste le attività
principali. Si trovano nelle osterie, nei bar, nelle taverne che
sorgono numerose nei dintorni del porto. A destra della darsena e del
porto la Kasba,
a sinistra l'alzaia del Naviglio.
«Giulio
Confalonieri, musicista, compositore e storico della musica,
frequentò da vicino i cosiddetti barboni di Milano. Evidentemente, i
personaggi dell'emarginazione milanese degli anni 1950 e '6o cantata
da E. Jannacci ne avevano di cose da raccontare, anche ad un maestro.
La “Flavia” che proprio nella Conca del Naviglio perse metà
della sua casa di ringhiera sotto le bombe della R.A.F., i suoi
fratelli straccivendoli allievi del “Cagnatt” (forse l'ultimo
campione nell'arte degli 'strasciée')17,
il Pierino, il Leonardi, l'Amleto, il Moro, “el Frigurifer” e
tanti altri ancora furono gli amici che Confalonieri frequentò nella
società “larga” compresa tra Porta Genova, Porta Ticinese, e il
dedalo di viuzze che si spingevano verso via Torino, e poi ancora in
su fino all'inizio di via Larga proprio dove un tempo sorgeva il
vecchio Bottonuto,
territtorio di malaffare e di case di tolleranza.18 Era un centro cittadino non ancora “normale” quello descritto dal
Confalonieri; alle osterie, ai trani e alle bettole permeate da
potenti odori a base di alcool e “trinciato nazionale” non si
erano ancora sostituite le attuali rassicuranti vetrine luccicanti in
stile mittel-europeo».19
Panoramica del vecchio Bottonuto adiacente a via Larga, dove oggi sorge piazza Diaz
|
L'immediato dopoguerra finisce, il boom economico scoppia. Nel solo 1961 Milano vede trasferirsi fra i suoi confini più di 81.000 persone. I quartieri popolari che già esistevano mutano il loro assetto e la loro geografia per ospitare le centinaia di migliaia di immigrati che provengono principalmente dal sud e dal Veneto, al punto da divenire irriconoscibili. Accanto alle case minime del periodo fascista sorgono gli immensi palazzoni popolari di Quarto Oggiaro, Comasina, Giambellino-Lorenteggio, Corvetto, che assumono l'aspetto che conosciamo ancor oggi. Veri e propri quartieri-dormitorio dove si verificano i sintomi normalmente connessi a questo tipo di fenomeni urbani, che non mancano di occupare le prime pagine dei giornali locali e, nei casi più vistosi, nazionali. Le coree si ingrandiscono. Io stesso vivo ad una cinquantina di metri da una zona residenziale di villette chiamata dagli abitanti del quartiere “villaggio Bovisasca”, che sorge dalle ceneri di un ex corea sottoproletaria.
Inizia
la lotta delle classi popolari e meno abbienti, che non riescono a
seguire il ritmo della neonata società del benessere, per restare
all'interno della cerchia delle mura spagnole che delimitano il
centro storico, in cui cominciano, lentamente, a sorgere i primi
locali alla moda per il divertimento della nuova borghesia
industriale, che ovviamente non vede di buon occhio la forte presenza
operaia, popolare e sottoproletaria radicata nella zona. Nell'area
del centro, sopratutto inizialmente in via Larga, sorgono i primi
Night Club, i Pub, I locali notturni alla moda. La ligera,
definibile fino ad allora come una vera e propria criminalità
popolare e “romantica”, che si dedicava ai piccoli furti e al
contrabbando con il solo scopo della sussistenza, inizia ad assumere
i connotati di una vera e propria criminalità organizzata, che
gestisce molti di questi locali e si dedica nel frattempo
ad attività illecite di ben altra natura. Lo scopo è quello di
arricchirsi e di fruire così dei benefici che la neonata società
dei consumi fornisce alla classe benestante.20 È in questo momento che inizia a verificarsi quella mescolanza tra
ceto popolare e ceto borghese, il quale comincia ad insediarsi anche
nelle zone più “centrali” del Ticinese e di porta Genova. Parte
lentamente il grande esodo dal centro verso le periferie operaie. Il
porto, che fino ad allora era stato un crogiolo di incontri e di
esperienze di vita vissuta, smette di ospitare i barconi e le
attività ad esse connesse intorno al '71. Ognimodo una realtà
popolare nella zona del Ticinese (allora comunque ancora considerato
periferia rispetto al “centro storico” propriamente detto, quello
delle mura spagnole, e che anzi fu uno dei quartieri “ospitanti”
le masse popolari provenienti dalle aree centrali) continuerà a
sopravvivere forte e radicata fino a tutti gli anni '70. Molte
osterie restano in piedi, e un fenomeno nuovo invade questi
quartieri: quello della contestazione studentesca. Una forte presenza
comunista, legata al partito di allora, c'è sempre stata in queste
zone, ma il fenomeno della contestazione giovanile riempie i viali
della darsena di energia nuova. I bar e le osterie popolari si
riempiono di studenti e giovani che si trovano per discutere,
dibattere, studiare o semplicemente svagarsi e bere in compagnia. Qui
studenti e operai si incontrano e si confrontano. Quel crogiolo di
corpi e di esperienze contribuirà a dare vita ad uno dei movimenti
politici più vivi ed energici della storia della nostra città e del
nostro paese. Basta chiedere ad uno qualsiasi dei nostri genitori,
che abbia frequentato quella zona anche solo un po', per farsi un
idea del clima suggestivo e particolarissimo che doveva esserci
all'epoca. È in quel periodo che viene occupato lo storico centro
sociale Cox 18 in via Conchetta, che ospiterà nei decenni successivi
la libreria Calusca di Primo Moroni, aperta tutt'oggi e inespugnabile
fortezza ideologica e politica, oltre che prezioso fortino di
testimonianze della Milano di quegli anni.21
Panoramica della vecchia darsena
|
Così
per tutti gli anni '70. Poi l'esplosione del '77, la grande
sconfitta, il riflusso degli anni '80, la deindustrializzazione e il
dissolvimento della cultura e della classe operaia. Questa è storia
recente. Milano si avvia a diventare una metropoli-piattaforma
internazionale basata sul terziario avanzato. Milano diventa la città
della moda. Milano diventa la Milano da bere. La gentrificazione
totale di quelle zone che fino ad allora si erano mantenuti popolari
per diversi secoli (erano infatti quartieri artigiani e contadini già
da prima della primissima industrializzazione, nelle poche case a
ringhiera sopravvissute nel Ticinese si possono ancora vedere le
cantine utilizzate per la produzione di formaggi) avviene nel giro di
un batter d'occhio: i prezzi aumentano, il costo della vita diventa
insostenibile; le masse operaie, proletarie e contadine si spostano.
Il definitivo esodo delle classi meno abbienti nelle periferie più
estreme trova completo compimento. Il Ticinese, con la sua darsena, e
il quartiere di Porta Genova, nel giro di pochissimi anni diventano
il fulcro della Milano da bere, molte vecchie osterie chiudono i
battenti, altre si riconvertono in ristoranti alla moda. Sono passato
di recente davanti all'osteria Briosca sulla darsena,
frequentatissima da mia madre negli anni '70 e nei primissimi anni
'80. Spesso mi ha raccontato delle esperienze vissute in quel posto,
bazzicato da lei quasi quotidianamente. Per curiosità sono entrato a
dare un occhiata, ma sono dovuto uscire subito. Sentivo una stretta
al cuore solo comparando le storie di mia mamma con ciò che è
diventato quel posto. Che c'è ancora da dire? Pochissimo è cambiato
da allora. Ciò che è diventata quella zona, ormai patria, come
detto, di fighetti e figli di papà, ce lo abbiamo tutti davanti agli
occhi. Sembra che la ciliegina sulla torna, il definitivo compimento,
il suggellamento della vittoria del consumo e del benessere nella
città vetrina internazionale sia stata l'ultima ristrutturazione
della darsena per EXPO. Ora la darsena del Naviglio di porta
Ticinese, che fino a due anni fa era rimasta abbandonata a se stessa,
con un vialuzzo d'erba che costeggiava l'acqua raggiungibile tramite
stretti scalini e frequentato solo da qualche senzatetto, è
diventata un largo e illuminato marciapiede di mattoncini rossi
segmentato da pali della luce con cartelli della Vodafone posti ad
intervallo regolare di 10-15 metri. La popolazione che passeggia su
quei marciapiedi preferisco lasciarla all'immaginazione. I locali che
ci si affacciano anche. Vi consiglio solo, se mai aveste voglia di
andare a farvi un giro, di fare un buon prelievo in banca. Se poi
doveste avere un attimo di straniamento in cui, per qualche secondo,
pensiate di essere sul lungomare di Rimini passeggiando tra le lucine
colorate state tranquilli, è assolutamente normale. Questo succede
ad una città che non ha consapevolezza del suo passato, che non
conosce la sua storia e quella delle strade e dei quartieri su cui
cammina in fretta per andare al lavoro. Questo succede ad una
metropoli internazionale che «con cieca avidità al denaro e al
progresso ha sacrificato le tradizioni, i valori, la storia, il senso
di appartenenza».22 Questo succede a dei milanesi che «“sono dei sordomuti”- e
indicò con la mano spiegata la schiena dell'auriga, la coda del
cavallo, il lastrico, la casa di fronte, la folla dei passanti- “i
milanesi sono dei sordomuti. Non sanno chi fu il Belloveso. Belloveso
fu il Romolo e Remo di Milano. Il gallo Belloveso, signore, che era
nipote di un re dei Biturigi, quasi seicent'anni avanti Cristo varcò
le Alpi e qui accampandosi fondò Milano, capitale morale d'Italia. E
a Milano nessuno, nessuno, nessuno lo sa”».23
La ricostruzione post-EXPO
|
Voglio,
per concludere la breve storia, riportare l'intero commento di
Francesco Erspamer, professore di lingue e letterature romanze
all'università di Harvard, a proposito, per citare un altro
avvenimento legato ad EXPO, della così definita “devastazione”
del centro città il 1° maggio 2015 da parte dei No-expo durante
l'inaugurazione della fiera, con relativa successiva attività di
pulitura delle “spugne di mastrolindo”, simbolo della società
benpensante meneghina tutta:
«I
black-bloc non hanno lasciato nemmeno un graffio permanente sul volto
di Milano. [...] Le oscene cicatrici che vediamo e non potranno
essere cancellate le ha fatte la cieca avidità di un sistema che al
denaro ha sacrificato le tradizioni, i valori, la storia, il senso di
appartenenza e che fa finta di ricordarsene solo quando dei ragazzi
senza passato e senza futuro si ribellano come possono, come sanno».24
creek
1 Commento
di Dante Isella alla poesia Navilii di Delio Tessa: Delio
Tessa, Altre Liriche (1999) a c. di Dante Isella, vol 2,
Einaudi, 2013 p. 429.
3 Per
questa vicenda si veda Gianfranco Pugni, C’era una volta
l’Albergo. La vicenda dell’Albergo Popolare, a cura del
CRAAL Ospedale S. Paolo, Dicembre 2001, p. 86.
6 Gianfranco
Pugni, C’era una volta l’Albergo. La vicenda dell’Albergo
Popolare, cit. p. 13.
8 Dati
riportati in ivi p. 13, a loro volta tratti dalle tabelle elaborate
dal Dott. Michele Dean in Milano Città in Guerra,
Feltrinelli, 1973, Milano.
11 Anche
Villa Litta ad Affori venne parzialmente convertita in ricovero,
insieme all'ex manicomio Senagra in corso XXII Marzo e alla zona di
Corvetto di recente finita sotto i riflettori mediatici. In questo
periodo nascono anche le prime case minime e il ricovero comunale a
Quarto Oggiaro, quartiere che raggiungerà il suo massimo
“splendore” durante la grande immigrazione del boom degli anni
Sessanta di cui a breve. Il Giambellino invece vedrà le prime case
minime costruite per ospitare gli esodati dopo il piano regolatore
del '26 (suggellato poi da quello di Albertini del '34) che
distruggerà il Bottonuto di via Larga e i quartieri
adiacenti nei primi anni '30.
12 Ivi
p. 92.
13 Dati
tratti dal Pugni da R.A.F., Bomber Air Command, Rapporto attacco
n. 107, 24 ottobre 1942, in Storia illustrata n. 267,
febbraio 1980.
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