giovedì 5 febbraio 2015

Sergio Leone tra postmodernismo e individualismo



Come individualista non posso che compiacermi della (presunta) morte dei grandi monologismi-monoteismi filosofici e culturali totalizzanti (marxismo, illuminismo, idealismo ecc) ma se quello che resta è un nichilismo diffuso, disperato e altrettanto totalizzante mi viene da rimpiangere i tempi delle grandi idee. In effetti faccio entrambe le cose.
Le ideologie non sono affatto morte, solo ne è sopravvissuta una soltanto: quella capitalista. Eppure anche questa non si esplicita, si dà per scontata, nega se stessa, esiste solo a livello fattuale. Forse anche questo è un effetto del postmoderno. E' un gran casino.


E comunque Sergio Leone fa strabrutto. Fa strabrutto perché come l'individualista sceglie di non scegliere. Sceglie se stesso. Fa gettare nel fango “Il patriottismo” di Bakunin al suo protagonista affinché neanche la teoria e la speculazione intellettuale condizionino la sua rivoluzione privata. Ecco, anarchico privato, forse il termine che lo definisce meglio. La figura dell' Anarca Jüngeriano che ricorre sempre, sistematicamente, nei sui film. Il rifiuto di qualsiasi condizionamento sociale, ideologico, politico, partitico, collettivo, pedagogico. L'erranza individuale e dolorosa come prezzo da pagare per una libertà raccattata e rappezzata con grande difficoltà e solitudine. La solitudine, altro grande tema dei suoi film. L'affermazione dell'individualità del singolo come strumento rivoluzionario, insieme alla denuncia velata di favola e mito delle miserie del nostro tempo. Grandi, enormi miserie. Non a caso amico di Pasolini, combatteva con il suo anarchismo solitario, donchisciottesco e iconoclasta a trecentosessanta gradi tutto l'aspro e l'indigeribile che il mattino quotidianamente ci ficca in bocca spacciandolo per oro. Rifiutando tuttavia che qualcuno gli insegnasse come si fa, gli desse il la, lo costringesse su di un binario, e per questo poco considerato (se non mal visto) dalla critica di sinistra. D'altronde basta considerare come Juan Miranda, peone messicano poverissimo, impedisca a Jhon, intellettuale irlandese rivoluzionario, di divenire il suo pigmalione della rivolta in un celebre scambio di battute in “Giù la testa”:

Io so benissimo cosa sono e dove cominciano. Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: “Qui ci vuole un cambiamento!” e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Quindi per favore, non parlarmi più di rivoluzione... E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente..... tutto torna come prima!”

Eppure un tempo, almeno a suo dire, Leone nella rivoluzione sembra aver creduto:

Alla fine della guerra, come molti italiani, avevo sogni e illusioni. Credevo nella rivoluzione [...]. Dopotutto mio padre aveva lottato sotto il fascismo [...] e io venivo da una famiglia di socialisti [...]- aggiungendo però- Diciamo solo che sono un socialista deluso. Al punto da diventare un anarchico. Ma siccome ho una coscienza, sono un anarchico moderato,che non va in giro a buttare bombe [...]. Nei miei film sono gli anarchici i personaggi sinceri”.1

Anarchico, dunque. E profondamente nichilista. Un soggetto depotenziato, fortemente postmoderno, incapace di destreggiarsi nella “frattura interna alla cultura su cui si sofferma pervicacemente lo sguardo leoniano” che “conduce l'autore alla consapevolezza nietzscheana di non possedere più alcuna verità e ragione”2. Ed ecco allora l'erranza dei sui personaggi, il loro individualismo esasperato, la loro solitudine ontologica.

Aspettando che il signore si ricordi di me, io Tuco Benedicto Pacifico Jaun Maria Ramirez, ti voglio dire una cosa: tu ti credi meglio di me, ma dalle nostre parti se uno non vuole morire di fame o fa il prete o fa il bandito, tu hai scelto la tua strada e io ho scelto la mia, è la mia la più dura...”.

In questa scena de Il Buono, Il brutto e Il cattivo, il bandito Tuco si scontra violentemente con il fratello prete, dopo che gli viene rinfacciata la sua natura (e uso proprio questo termine) di fuorilegge. Se considerassimo la fame come il bisogno di cultura e di punti di riferimento in un periodo caotico e di miseria culturale mortale (come del resto è Il West leoniano), il prete un qualunque fautore di un qualsiasi monologismo filosofico o politico dogmatico, e il bandito l'individualista, l'anarchico e il “dannato dei tempi moderni”, ecco che il mito e la favola diventano estremamente attuali. Ecco che si preferisce il rifiuto intellettuale di qualsiasi dogmatismo in nome della propria insostituibilità individuale e della propria libertà. Certo il prezzo si paga: solitudine, erranza, insicurezza, mancanza di protezione, di tranquillità, di fedi, di vati, di maestri e di precettori, percezione del nulla. Si diventa banditi insomma, ed è una strada dura, certo che è dura.
Ma i banditi mi sono sempre stati più simpatici dei preti.

E quindi si va avanti; spesso tentennando, alle volte tirando calci ai sassi, altre con i piedi ben piantati a terra, altre ancora con qualcuno che fellinianamente cerca di riportarceli con un lazzo interrompendo voli pindarici ma, a parte questo, concluderò con una frase leoniana che farà eco nella memoria di qualsiasi buon cinefilo: “Al cuore Ramon, al cuore. Altrimenti non riuscirai ad ammazzarmi”.

creek




1 N. Simsolo, Conversation avec Sergio Leone, Cahiers du Cinema Livres (April 8, 1999), pp. 100-101, 164.

2 Christian Uva, Sergio Leone: il cinema come favola politica, Ente dello Spettacolo, 2013, p.94.

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