Come
individualista non posso che compiacermi della (presunta) morte dei
grandi monologismi-monoteismi filosofici e culturali totalizzanti
(marxismo, illuminismo, idealismo ecc) ma se quello che resta è
un nichilismo diffuso, disperato e altrettanto totalizzante mi
viene da rimpiangere i tempi delle grandi idee. In effetti faccio
entrambe le cose.
Le
ideologie non sono affatto morte, solo ne è sopravvissuta una
soltanto: quella capitalista. Eppure anche questa non si esplicita,
si dà per scontata, nega se stessa, esiste solo a livello fattuale.
Forse anche questo è un effetto del postmoderno. E' un gran casino.
E
comunque Sergio Leone fa strabrutto. Fa strabrutto
perché come l'individualista sceglie di non scegliere. Sceglie se
stesso. Fa gettare nel fango “Il patriottismo” di Bakunin al suo
protagonista affinché neanche la teoria e la speculazione
intellettuale condizionino la sua rivoluzione privata. Ecco,
anarchico privato, forse il termine che lo definisce meglio. La
figura dell' Anarca Jüngeriano
che ricorre sempre, sistematicamente, nei sui film. Il rifiuto di
qualsiasi condizionamento sociale, ideologico, politico, partitico,
collettivo, pedagogico. L'erranza individuale e dolorosa come prezzo
da pagare per una libertà raccattata e rappezzata con grande
difficoltà e solitudine. La solitudine, altro grande tema dei suoi
film. L'affermazione dell'individualità del singolo come strumento
rivoluzionario, insieme alla denuncia velata di favola e mito delle
miserie del nostro tempo. Grandi, enormi miserie. Non a caso amico di
Pasolini, combatteva con il suo anarchismo solitario,
donchisciottesco e iconoclasta a trecentosessanta gradi tutto l'aspro
e l'indigeribile che il mattino quotidianamente ci ficca in bocca
spacciandolo per oro. Rifiutando tuttavia che qualcuno gli insegnasse
come si fa, gli desse il la, lo costringesse su di un binario, e per
questo poco considerato (se non mal visto) dalla critica di sinistra.
D'altronde basta considerare come Juan Miranda, peone messicano
poverissimo, impedisca a Jhon, intellettuale irlandese
rivoluzionario, di divenire il suo pigmalione della rivolta in un
celebre scambio di battute in “Giù la testa”:
“Io
so benissimo cosa sono e dove cominciano. Quelli che leggono i libri
vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono:
“Qui ci vuole un cambiamento!” e la povera gente fa il
cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si
siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano e mangiano. Parlano e
mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti!
Ecco la tua rivoluzione! Quindi per favore, non parlarmi più di
rivoluzione... E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente.....
tutto torna come prima!”
Eppure
un tempo, almeno a suo dire, Leone nella rivoluzione sembra aver
creduto:
“Alla
fine della guerra, come molti italiani, avevo sogni e illusioni.
Credevo nella rivoluzione [...]. Dopotutto mio padre aveva lottato
sotto il fascismo [...] e io venivo da una famiglia di socialisti
[...]- aggiungendo però- Diciamo solo che sono un socialista deluso.
Al punto da diventare un anarchico. Ma siccome ho una coscienza, sono
un anarchico moderato,che
non va in giro a buttare bombe [...]. Nei miei film sono gli
anarchici i personaggi sinceri”.1
Anarchico,
dunque. E profondamente nichilista. Un soggetto depotenziato,
fortemente postmoderno, incapace di destreggiarsi nella “frattura
interna alla cultura su cui si sofferma pervicacemente lo sguardo
leoniano” che “conduce l'autore alla consapevolezza nietzscheana
di non possedere più alcuna verità e ragione”2.
Ed ecco allora l'erranza dei sui personaggi, il loro individualismo
esasperato, la loro solitudine ontologica.
“Aspettando
che il signore si ricordi di me, io Tuco Benedicto Pacifico Jaun
Maria Ramirez, ti voglio dire una cosa: tu ti credi meglio di me, ma
dalle nostre parti se uno non vuole morire di fame o fa il prete o fa
il bandito, tu hai scelto la tua strada e io ho scelto la mia, è la
mia la più dura...”.
In
questa scena de Il Buono, Il brutto e Il cattivo, il bandito Tuco si
scontra violentemente con il fratello prete, dopo che gli viene
rinfacciata la sua natura (e uso proprio questo termine) di
fuorilegge. Se considerassimo la fame come il bisogno di cultura e di
punti di riferimento in un periodo caotico e di miseria culturale
mortale (come del resto è Il West leoniano), il prete un qualunque
fautore di un qualsiasi monologismo filosofico o politico dogmatico,
e il bandito l'individualista, l'anarchico e il “dannato dei tempi
moderni”, ecco che il mito e la favola diventano estremamente
attuali. Ecco che si preferisce il rifiuto intellettuale di qualsiasi
dogmatismo in nome della propria insostituibilità individuale e
della propria libertà. Certo il prezzo si paga: solitudine, erranza,
insicurezza, mancanza di protezione, di tranquillità, di fedi, di
vati, di maestri e di precettori, percezione del nulla. Si diventa
banditi insomma, ed è una strada dura, certo che è dura.
Ma
i banditi mi sono sempre stati più simpatici dei preti.
E
quindi si va avanti; spesso tentennando, alle volte tirando calci ai
sassi, altre con i piedi ben piantati a terra, altre ancora con
qualcuno che fellinianamente cerca di riportarceli con un lazzo
interrompendo voli pindarici ma, a parte questo, concluderò con una
frase leoniana che farà eco nella memoria di qualsiasi buon
cinefilo: “Al cuore Ramon, al cuore. Altrimenti non riuscirai ad
ammazzarmi”.
creek
1 N. Simsolo, Conversation avec Sergio Leone, Cahiers du Cinema Livres (April 8, 1999), pp. 100-101, 164.
2 Christian Uva, Sergio Leone: il cinema come favola politica, Ente dello Spettacolo, 2013, p.94.
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